Un menu gourmet con antipasto di carattere, primo e secondo raffinati e tante portate di contorno. No, non è un delirio gastronomico, ma è il dono che i partecipanti al primo Convegno dei gruppi caritativi parrocchiali, organizzato dalla Caritas diocesana di Trieste e tenutosi sabato 8 novembre presso il Centro Pastorale “Paolo VI”, si sono portati a casa. “Cibo” – fatto di parole importanti – nutriente per il servizio, condito con un clima di ascolto, attenzione e desiderio di condividere. Una cinquantina le persone, provenienti da diverse parrocchie della diocesi, che hanno vissuto con intensità questo tempo di incontro.
Nel suo intervento di apertura, il Vescovo di Trieste, monsignor Enrico Trevisi, ha preso spunto da due testi: la conclusione della Esortazione Apostolica Dilexi te, già iniziata da Papa Francesco e conclusa e pubblicata da Papa Leone XIV, e da un saggio di Zygmunt Bauman, di oltre 20 anni fa, dal titolo “Tutti schiavi del fitness”. Se nella prima il Papa afferma che “L’amore cristiano supera ogni barriera, avvicina i lontani, accomuna gli estranei, rende familiari i nemici, valica abissi umanamente insuperabili, entra nelle pieghe più nascoste della società”, monsignor Trevisi sottolinea come «per sua natura l’amore cristiano è profetico, compie miracoli, non ha limiti, è per l’impossibile. L’amore è soprattutto un modo di concepire la vita, un modo di viverla.
Ebbene una Chiesa che non mette limiti all’amore, che non conosce nemici da combattere, ma solo uomini e donne da amare, è la Chiesa di cui oggi il mondo ha bisogno».
E, rivolgendosi alle volontarie e ai volontari presenti, aggiunge: «Sia attraverso il vostro lavoro, sia attraverso il vostro impegno per cambiare le strutture sociali ingiuste, sia attraverso quel gesto di aiuto semplice, molto personale e ravvicinato, sarà possibile per quel povero sentire che le parole di Gesù sono per lui». Riprendendo le parole di Bauman, poi il Vescovo ricorda come, nel suo saggio, il sociologo dica che «la società è tanto umana quanto sono decenti e dignitose le condizioni di vita dei suoi membri più umili, meno autorevoli. Quanto più le persone fragili vivono una condizione di vita decente e dignitosa, tanto più la società è progredita: “La società umana si differenzia dalle mandrie, dai branchi, dalle orde di animali, per la sua capacità e volontà di annoverare fra i suoi membri anche creature in cattive condizioni, ma fanno parte della nostra comunità e ce ne prendiamo cura”. Principi che Bauman ha appreso dai suoi insegnanti e che, dice, “non ho più dimenticato”».

Ecco, quindi, alcune sottolineature sulla Lettera Pastorale “Ha cura di me, ha cura di noi!”:
«Su questo insisto nella lettera: fai sempre memoria che tu sei stato fin dall’inizio destinatario della cura. E allora, quando incontrerai una persona fragile, un povero, un malato, ma anche – e quanti ce ne sono – un bambino autistico, un adulto psichiatrico… quando tu incontri una persona fragile ricordati che anche tu sei stato fragile e ricordati che potrai esserlo ancora». La relazione, ha ricordato Vescovo Enrico, è già cura: «Rispetto alle parole di Bauman, come cristiani abbiamo un fondamento molto più solido. Non è soltanto il senso morale che ci deve contraddistinguere e che ci accomuna a tutti, ma il fatto che abbiamo una coscienza, una umanità e, ancora di più, un fondamento spirituale, religioso, teologico: Dio si prende cura di me e io posso diventare l’occasione che do ancora a Dio di far sentire a una persona che Egli si prende cura della sua fragilità. Tutto questo ci ha portato qui oggi e ci chiede di migliorare come persone singole, ma poi anche come comunità e come Chiesa».
Tante le parole chiave offerte da padre Giovanni La Manna sj, direttore della Caritas diocesana, nel suo intenso intervento: gratuità, cura, insieme, comunione, relazione, speranza, fiducia. «Come Caritas diocesana, ci sentiamo profondamente dentro alle parole della Lettera Pastorale del nostro vescovo» ha subito sottolineato il direttore
«perché la cura — insieme alla gratuità — è la lingua con cui cerchiamo, ogni giorno, di dire il Vangelo. Ma la gratuità nasce da un cuore che sa che la vita non è un contratto, ma un dono». «La cura» ha proseguito «non è un sentimento: è un atteggiamento, uno stile di vita. Curare vuol dire farsi carico dell’altro, entrare nel suo tempo, condividere la sua fatica. Nelle nostre case di accoglienza, la cura non è solo dare un letto o un pasto. È la presenza costante di chi accompagna. È la visita fatta a chi vive solo, la telefonata ripetuta a chi non risponde, la preoccupazione sincera per chi “sparisce” per un po’. È la pazienza di chi non si arrende, anche quando il percorso è lento, faticoso, contraddittorio. Come direttore della Caritas diocesana, mi sento di dire con chiarezza: la Caritas non fa la carità al posto della Chiesa, ma aiuta la Chiesa a viverla. Siamo un servizio, non un mondo a parte. Siamo chiamati a “fare con”, non a “fare per”».

Prima dei lavori di gruppo – momento che ha visto una condivisione davvero profonda delle esperienze personali a partire dalla suggestione “Mi ricordo quel giorno in cui ho sentito che ‘gratuitamente stavo ricevendo’…”, un modo per ri-andare al momento della chiamata al servizio della carità – un puntuale intervento di Alessandro Villa si è focalizzato sulla missione statutaria della Caritas e sull’iniziativa del “Calendario della solidarietà”. A seguire, ecco le testimonianze di due giovani, Elisa Mariani e Matteo Marchionni, che hanno fatto l’esperienza del “servizio civile solidale”. La parola poi è passata alle parrocchie, con il racconto da parte di Caterina Grandi, Roberto Cascella e Giulia Barbero delle proposte nate nell’ambito del bando “Laboratorio del buon samaritano”. Infine, una finestra sull’attività del Centro d’ascolto, a cura di Sara Cravagna. La fitta scansione dei vari interventi è stata resa fluida dalla “cucitura” accurata di Anna Rita Sorangelo.

Dopo una mattinata di lavoro insieme alcuni semplici piatti di carta si sono riempiti di parole importanti – frutto della condivisione in gruppi – ed ecco comporsi sul tavolo un menu di tutto rispetto: non “pensato” con la testa, ma “vissuto” con il cuore. E così, “incontro, relazione con il Signore e gli altri”, nella sintesi di padre La Manna, diventa l’antipasto «responsabile di far capire che ci si trova ad una tavola di un certo livello»; in abbinamento ecco “preghiera”, «perché l’incontro con Dio non è un contratto che finisce il giorno in cui si firma, ma una relazione cui dedicare del tempo»; e ancora “servizio”, che è «quel gesto concreto che nasce dalla relazione con il Signore, che apre agli altri e che consente concretamente di riconoscerlo nelle persone più fragili». Questo tris di punta viene servito insieme a tutti gli altri piatti del menu: “ascolto”, “accoglienza”, “solidarietà”, “gratitudine”, “gratuità”, “fiducia”, “speranza”, “amore e Gesù Cristo”, “comprensione”.

Un banchetto “h24” che il Signore eroga a ciascuno di noi per tutti i giorni della nostra vita. E come gratuitamente, a suo tempo, ciascuno si è nutrito, allo stesso modo, gratuitamente, ciascuno è chiamato a nutrire gli altri:
«Aiutaci, Signore, a condividere non solo il cibo materiale, ma ciò che siamo, la nostra umanità, il nostro cuore» ha detto padre La Manna nella preghiera finale di benedizione «e donaci anche di condividere con letizia, sapendo essere contenti per primi, per tutto ciò che riceviamo».
Luisa Pozzar
Foto: Luca Tedeschi e Luisa Pozzar
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