Fin dalla notte dei tempi l’uomo ha percepito che il colore rosso possiede una forza diversa: brucia negli occhi, vibra nel cuore, domina lo sguardo. Forse perché è il colore del fuoco e del sangue, forse perché è la prima tinta che l’occhio umano riconosce e la più difficile da ignorare.
Il rosso attrae, richiama, ordina: diventa subito centro e luce di ogni narrazione visiva. In tempi più moderni è stato provato che l’osservazione di questo colore ci attiva o rende più vivo un processo biologico naturale: il rosso va a stimolare il sistema nervoso simpatico, accelerando battito cardiaco e respirazione.
Nella storia dell’arte, questo potere primordiale si è intrecciato alla preziosità dei pigmenti.
Il cinabro, il kermes, il carminio erano essenze estratte o minerali così costosi da diventare essi stessi un atto di devozione. Quando un artista decideva di usarli, stava consacrando ciò che dipingeva: conferiva valore, importanza, sacralità, potere. Nel Medioevo, nelle icone e nei fondi oro, il rosso era duplice come la natura umana: rappresentava il potere e la ricchezza, sangue, regalità, martirio, ma anche l’amore e la passione, sacra o profana. Il rosso nei panneggi, nei cieli drammatici, nei volti accesi dalla sofferenza, sembrano volerci ricordare che la Passione non è un concetto astratto, ma un evento fisico e reale. Nelle icone medievali il rosso è spesso il colore del manto di Cristo risorto, come a indicare che la carne ferita diventa carne glorificata: il sangue versato non è annientamento, ma passaggio verso una vita nuova. Così il rosso assume un duplice valore: passione e risurrezione, morte e vittoria. È il colore del sacrificio e allo stesso tempo della regalità divina, come il fuoco che brucia ma illumina.

Il trono rosso di Giotto, le tuniche dei santi martiri, i manti degli imperatori e delle Madonne erano tutti attraversati dalla stessa fiamma. L’arte rinascimentale e barocca intensifica ulteriormente questa simbologia.
Così la veste scarlatta della Vergine nei dipinti di Raffaello, o il drappo ardente che domina la scena nella “Morte della Vergine” di Caravaggio, non sono semplici colori: sono dichiarazioni, lampi simbolici, rivelazioni.
La drammaticità del rosso, a volte profondo e terroso, altre volte acceso come una ferita appena aperta, serve a coinvolgere lo spettatore, a trascinarlo dentro la scena.

Davanti a una Crocifissione di Tintoretto o a un Ecce Homo di Caravaggio, il rosso sembra vibrare, quasi volesse ricordarci che quel dolore non appartiene solo al passato, ma continua a interrogare chi guarda.
Il rosso è lì a dirci che Cristo ha amato fino al punto di farsi ferire, fino a provare le stesse sensazioni e fragilità che appartengono all’esperienza umana. È il colore del rischio e della scelta, della vita che si dona fino all’estremo.
Può sembrare un paradosso che nella tradizione cristiana il rosso significhi allo stesso tempo Passione e Natale, dolore e gioia. Eppure questa sua duplice anima nasce da una logica profonda.

Nella Bibbia, il sangue è vita, sacrificio (“la vita è nel sangue” – Lev 17,11).
Per questo il rosso racconta l’intera parabola dell’esistenza: dal primo respiro all’ultimo, dalla nascita alla morte, dall’abbraccio all’addio.
A Natale il rosso non parla di ferite, ma di calore: il calore dell’incarnazione, dell’amore di Dio che “si fa carne”, della tenerezza umana che riscalda la notte. È il rosso vivo della vita che nasce.
Per questo la tradizione cristiana usa lo stesso colore per i due estremi della vicenda di Cristo: Natale e Passione, perché entrambi sono espressione della stessa, immensa verità: l’amore che si dona, dall’inizio alla fine.
Giovanni Pulze
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