Teologia: perchè?

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Primo quesito: che cosa fa sì che un invito funzioni? Perché una persona che legge un post sul sito diocesano o guarda una locandina riguardante l’Istituto di Scienze Religiose o legge questo articolo dovrebbe immediatamente iscriversi ai corsi di teologia, magari rimproverandosi di non averci mai pensato prima? A questo quesito non so rispondere. In realtà mi è difficile comprendere le ragioni complesse e articolate per cui una persona sceglie una certa marca di detersivo, guarda una certa serie televisiva, legge un certo giornale, vota un certo candidato, si iscrive a teologia. Queste ragioni le conoscono coloro che si occupano di marketing, pubblicità, sondaggi.

C’è però un quesito previo ad un’eventuale iscrizione ai corsi teologici: perché si studia teologia? E perché la teologia riguarda non solo i preti, ma anche i laici, non solo i credenti, ma anche i non credenti, non solo gli “arrivati” (se esistono), ma anche coloro che sono in ricerca? In questo articolo proverò a rispondere a queste domande.

Le parole con cui descrivere il compito della teologia potrebbero essere moltissime. Quelle che mi convincono di più le ha scritte Giuseppe Ruggieri:

«La teologia assomiglia un po’ al lavoro del cuoco: un po’ di conoscenza della Scrittura; un po’ di conoscenza della storia della chiesa e di quello che hanno scritto gli altri; un po’ di conoscenza di quello che scrivono i filosofi e gli uomini di cultura. Tutto questo, se messo assieme nella maniera giusta, permette di comprendere come parlare in maniera un po’ più adeguata del Signore in cui crediamo tu e io». Da queste parole emergono due aspetti importanti. Primo: la teologia è un sapere interdisciplinare, in cui cioè più discipline dialogano e collaborano tra loro. Secondo: il lavoro teologico presuppone la fede in chi lo svolge “professionalmente”.

Detto in altri termini: la teologia è una scienza credente, direi perfino confessionale. Non è detto però che studiare teologia e interessarsene dal punto di vista storico e culturale presupponga necessariamente l’essere credenti.

Ruggieri delinea anche il compito della teologia:

«Comprendere come parlare in maniera un po’ più adeguata del Signore».

Molti, evincendo troppo in fretta dall’etimologia del termine – theos-logos, discorso su Dio –, pensano che la teologia sia quella disciplina deputata a dire Dio, quasi a svelarne i segreti e a violarne il mistero. Se così fosse, smentirebbe se stessa riferendosi non al nostro Dio ma a un idolo. Piuttosto la teologia ha il compito di «comprendere», con tutti i mezzi culturali a sua disposizione, come narrare il Signore e la relazione con lui – che si chiama fede – in modo adeguato, cioè autentico, comprensibile, storicamente e culturalmente situato e, perché no? accattivante. Dio e la fede in lui non si possono dimostrare ma mostrare e il discorso di fede non deve vincere, ma convincere: «Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto» (1Pt 3,15-16). Ecco quindi alcuni interessanti verbi di squisito sapore teologico: narrare, mostrare, comprendere. Il testo della prima lettera di Pietro ne aggiunge un altro paio – rispondere e rendere ragione – e suggerisce uno stile: prendere sul serio le domande, accettare il dialogo e il confronto, porsi con dolcezza e rispetto.

Il breve testo di Ruggieri indica inoltre i contenuti salienti dello studio teologico: l’approfondimento critico del testo biblico, l’impostazione data dalla filosofia, l’approccio di taglio storico con la riflessione sulla storia della chiesa inserita nella storia universale, il confronto con le antiche fonti cristiane e con la riflessione dei teologi che hanno scandito la narrazione credente lungo i secoli, in particolare circa il mistero di Dio Trinità, la persona di Gesù Cristo, il dinamismo dello Spirito e la dimensione comunitario-ecclesiale.

Perché è importante studiare tutto ciò? E per un credente oggi forse addirittura indispensabile? Perché è necessario che la fede sia libera, consapevole, disposta a crescere e che parli alla ragione, al cuore e all’intera vita del credente. Perché è indispensabile avere gli elementi necessari e l’ampiezza di mente e cuore per una narrazione corretta e coinvolgente della fede. Perché il dialogo con la cultura contemporanea e perfino l’impegno pastorale richiedono non solo buona volontà ma anche competenza. Perché il sapere teologico offre molte interessanti chiavi di lettura per interfacciarsi non solo con il mondo ecclesiale ma con ciò che noi ancora chiamiamo «cultura occidentale» nel suo complesso. Perché gli studi teologici spaziano su un panorama di discipline molto articolato e appassionante e offrono nutrimento solido a qualsiasi persona che ami il sapere, credente o meno.

E infine perché è straordinariamente bello!

don Federico Grosso


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