Un incontro che ha rinnovato l’amicizia tra ebrei e cattolici e ha rinnovato la condanna alla violenza e all’antisemitismo
Una sala gremita quella che ha accolto l’ormai tradizionale incontro in occasione della giornata del dialogo ebraico cristiano, quest’anno anticipato di un giorno per rispettare la sacralità dello shabbat. Don Valerio Muschi ha introdotto il momento di riflessione sul tema del giubileo presentando i due relatori: il rabbino capo di Trieste e del Friuli-Venezia-Giulia rav Eliahu Alexander Meloni e il vescovo mons. Enrico Trevisi.
Entrambi i relatori hanno iniziato la loro riflessione dicendo che quello che stiamo vivendo è un tempo difficile per il dialogo tra ebrei e cristiani, un tempo in cui l’amicizia è messa alla prova. Ma il fatto di continuare a dialogare è il segno che ebrei e cristiani vogliono essere amici. La difficoltà, ha detto rav Meloni, si colloca più ad alto livello per alcune dichiarazioni che hanno ferito il mondo ebraico. Tuttavia, si è ritenuto di non buttar via il pluridecennale dialogo che, anzi, deve continuare. Anche mons. Trevisi ha iniziato la sua riflessione esprimendo la gioia per l’incontro, una gioia segnata certo da dolori profondi:
«Siamo qui per esprimere la nostra più radicale condanna di ogni violenza e guerra. Di tutte le guerre, anche quelle che insanguinano l’Etiopia e lo Yemen, il Sudan e il Sud Sudan, il Congo e naturalmente l’Ucraina e la Russia e dunque non solo Israele e Gaza, il Libano e la Siria. Siamo qui perché siamo contro ogni antisemitismo e antigiudaismo. Li condanniamo fermamente e difendiamo il diritto di Israele di esserci e di esserci nella pace. Siamo qui con l’orrore per quanto è successo il 7 ottobre 2023: un pogrom e condanniamo Hamas senza se e senza ma».
Il Vescovo ha continuato dicendo che
«qui a Trieste siamo sempre stati chiari nel non girarci attorno a queste cose. Siamo qui perché non smettiamo mai di voler esprimere la sofferenza per gli ostaggi ancora usati come un ricatto, per la crudeltà a cui sono stati sottoposti – lo sappiamo da quelli che sono stati liberati – e lo sono coloro che ancora non sono stati liberati. Esprimiamo sdegno per questa crudeltà come anche per l’usare i civili palestinesi come scudo per operazioni terroristiche. Ci fanno orrore le dichiarazioni di coloro che vogliono la distruzione di Israele».
Il clima della serata, davvero molto partecipata a significare proprio la vicinanza del mondo cristiano alla comunità ebraica, si può riassumere in queste altre parole del Vescovo:
«Siamo qui perché gli ebrei e i cristiani sono fratelli, che talvolta faticano a comprendersi e a stimarsi. Ma comunque restano fratelli che cercano il dialogo. Fratelli non si sceglie di esserlo. Lo si è per disposizione divina. A noi scegliere come vivere da fratelli: se secondo il piano di Dio o se secondo i nostri pregiudizi, le nostre chiusure, le nostre paure. Non rimane che rimettersi in ascolto di Dio… ma anche in ascolto reciproco con lo sforzo di capire l’altro: le sue paure, la sua sofferenza, la sua speranza».
Un impegno quotidiano che a Trieste è quotidiana vicinanza di due mondi che per troppo tempo sono stati ostili.
L’incontro del 2025 si incentrato attorno al tema del giubileo. Rav Meloni ha commentato il testo di Levitico 25, 1-12 che riporta l’istituzione dello yovel, il giubileo appunto. Per il mondo ebraico è strano parlare di yovel. Si tratta di un comandamento, che però non si può più applicare. È stato contato e applicato, ma dalla distruzione del secondo tempio non si fa più.
Non è chiaro cosa significhi la parola in ebraico. Probabilmente di tratta di uno shofar specifico. yovel significa ariete e qui fa riferimento ad un corno speciale, diverso da quello che si suona nello Yom Kippur, il giorno dell’espiazione. Oggi il corno si suona, ma a Rosh haShana e rappresenta la voce del popolo che richiama la voce di Dio per il perdono. Mentre il suono dello yovel è solo annuncio del cinquantesimo anno.
Il primo yovel è stato celebrato cinquanta anni da quando Giosuè è entrato, attraverso il fiume Giordano, nella terra di Israele. Da quel momento di contano gli anni sabbatici (Shemittah) – che sono ancora rispettati. L’anno sabbatico è l’anno in cui non si coltiva la terra. Dopo sette settimane di anni vi è l’anno sabbatico seguito da un secondo anno in cui la terra deve riposare, il cinquantesimo anno quindi.
Il computo degli anni dello yovel avviene fino all’esilio babilonese. Poi col secondo tempio si è ripreso il conteggio, ma non si è più celebrato. E nel 70 si è rinunciato anche a contare il cinquantesimo anno.
Per capire il giubileo per la Bibbia dobbiamo prima di tutto ricordare che cos’è l’anno sabatico (shabbat haharez): è l’anno in cui si rinuncia a coltivare la terra e nella quale i debiti devono essere azzerati. È l’anno in cui i servi vengono liberati. Bisogna sottolineare che per gli ebrei lo schiavo non è una persona del tutto sottomessa al padrone che ha diritto di vita e di morte. Lo schiavo, il servo, è schiavo per ragioni economiche: o ha un debito che non può rimborsare, oppure ha fatto una colpa che non può risarcire. Quindi per tutto il tempo egli appartiene al padrone. Il padrone, però, ha l’obbligo di vestirlo, nutrirlo, dargli un tetto e deve provvedere alla famiglia. Verrà poi liberato, ricevendo anche una somma che gli viene data. Il servo, tuttavia, può rifiutare di essere liberato. Ma quando arriva lo yovel tutto cambia: in quella circostanza vi è l’obbligo assoluto di liberazione. Vi è quindi l’obbligo che tutta la situazione ritorni allo status originario.
Il problema di realizzare lo yovel sta nel fatto che tutto il popolo di Israele deve essere in Israele. Un po’ prima dell’esilio babilonese, alcune tribù scompaiono e quindi nel tempo del secondo tempio non si poteva realizzare lo yovel, anche perché molti ebrei sono rimasti in Babilonia.
Cosa può significare?
Sullo yovel i maestri si attengono al testo. Al verso 10 del capitolo 25 del Levitico dice che santificherete l’anno cinquantesimo e lo chiamerete dror e dichiarerete libertà per tutti coloro che ci vivono. Libertà è hofesh. In questo versetto è l’univa volta che dror ha senso di libertà.
Rashi, un commentatore, accosta dror a diur, abitare. Perché lo schiavo è libero di abitare ovunque vuole.
Nel Talmud un uccello è chiamato tzipor dror è il passero che vive sia in campagna che in città.
Nella torah (Es 30) si parla dell’incenso. Diversi ingredienti: mor dror. Cos’è? Mor è un profumo estratto da una ghiandola di animale. Qui dror significa puro, senza falsificazione.
Allora che cos’è questa libertà e cosa deve portare allo yovel?
Per capire bene di cosa stiamo parlando dobbiamo capire l’importanza del numero sette. È il numero della creazione, della materialità, della natura, è il mondo fisico. Il problema per la vita dell’uomo è arrivare all’ottavo giorno, superare cioè il mondo della materia. Lo shabbat, infatti, è superiore alle feste perché arriva sempre e comunque. Il superamento del sette è fondamentale perché richiede la libertà, l’uguaglianza tra ogni uomo: non c’è più servo o padrone, ma siamo liberi.
Lo yovel accade ogni cinquant’anni perché nell’umanità, nelle società umane esiste una erosione delle cose. Lo yovel è il tempo di una nuova generazione, di una sedimentazione degli elementi negativi della società, anche della fede che rischia di non poter essere più trasmessa. Ciò vale anche per la dimensione sociale: all’inizio si è tutti uguali, ma poi si creano delle gerarchie che ingabbiano gli uomini in un contesto negativo. Il giubileo ricorda che l’uomo non è servo di un altro uomo. L’uomo è servo di Dio, non degli uomini.
Ciò si inserisce anche in quella peculiare concezione ebraica della società. Essa serve per creare la santità – da intendersi non con l’accezione cristiana ma con quella ebraica di separazione. Il popolo ebraico è separato dagli altri perché deve dare un esempio, ricordare che la fede non può essere una mera abitudine, che il legame sociale non deve essere basato sulla disuguaglianza, ma sulla giustizia. E tutto questo processo dipende dalla nostra volontà di creare un mondo migliore.
Dopo il Rabbino capo ha preso la parola mons. Trevisi che ha approfondito la prospettiva cristiana del giubileo. Per i cattolici, pur rifacendosi ai testi della Prima Alleanza (anzitutto Levitico 25), il giubileo ha assunto una prospettiva differente. Nel 1300 Bonifacio VIII ha istituito il giubileo ruotandolo soprattutto attorno alla pratica del pellegrinaggio e del perdono dei peccati. Clemente VI a partire dal 1350 stabilì di celebrarlo ogni cinquant’anni e Paolo II dal 1475 stabilì che fosse celebrato ogni venticinque anni. Progressivamente, però, si riscoprì che il giubileo non poteva essere una semplice pratica spirituale e individuale e questo proprio per fedeltà al giubileo di Levitico 25, ma anche in connessione al Vangelo di Luca 4,16-21 e in esso alla citazione di Isaia 61,1-2.
Ecco che accanto alla dimensione spirituale del pellegrinaggio e del perdono dei peccati si sono affiancate più recentemente la questione del lieto annuncio ai miseri, del fasciare le piaghe dei cuori spezzati, della libertà degli schiavi, della scarcerazione dei prigionieri. Si tratta delle questioni che riassumiamo nella categoria della “giustizia sociale”: la remissione dei debiti (pensiamo alla questione del debito estero dei Paesi poveri, che è una sorta di neo-colonialismo); oppure all’accumulo sfrenato di proprietà e ricchezze nelle mani di pochi nei confronti dei tanti miseri. Si tratta delle riflessioni che, a partire dalla Scrittura, si confrontano con il mondo odierno fino ad elaborare la cosiddetta dottrina sociale della Chiesa.
Da qui il riferimento alla misericordia e alle opere di misericordia, ma anche alla giustizia sociale: si pensi alle politiche di remissione del debito estero dei Paesi poveri e quelle che rivedono il sistema carcerario che in Italia, come in tutto il mondo, viene vissuto ancora come una repressione disumana – e che porta a innumerevoli suicidi, sia tra i carcerati che tra la polizia penitenziaria – che non fa che incattivire le persone e renderle ancora più pericolose per sé e per la società, con l’aumento di recidive rispetto alle pene alternative al carcere.
Le due ultime encicliche sociali, la Laudato Sii e la Fratelli tutti, lette nella prospettiva giubilare ci chiedono di rinnovarci anche in queste dimensioni:
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- La salvaguardia del creato, che troppo spesso abbiamo considerato come una proprietà da sfruttare: invece il giubileo ci richiama che la Terra è di Dio e ce la affida perché ne rispondiamo a Lui, perché ci rimettiamo in ascolto del suo progetto;
- La fraternità come assunzione di responsabilità nei confronti di chi vive questa stessa terra, che è di Dio. Anche una fraternità tra i popoli: e dunque anche con i fratelli ebrei. Che sono fratelli e che continuiamo a considerare come fratelli a cui guardare con affetto e stima. Anche quando diciamo che non siamo d’accordo su come si stanno difendendo dal terrorismo di Hamas. Ma restano fratelli amati. Questi pensieri non sono derive ingenue. Non si tratta di scadere nell’irenismo. La fraternità tra i popoli è un compito divino, è una responsabilità per la quale saremo chiamati a verificarci davanti a Dio. La via è complessa, irta e per questo non servono solo le strategie politiche ma anche l’apporto delle religioni e il dialogo sui valori portanti che precedono e fondano la politica (che non può essere un mero dispiegamento di forza e nemmeno la tirannia della maggioranza).
Così ha concluso il vescovo:
«“Pellegrini di speranza” è il tema che papa Francesco ha dato a questo giubileo. È bello trovarci tutti insieme, anche se diversi (come lo sono i fratelli, l’uno diverso dall’altro) a costruire vie di speranza, in ascolto di quella Parola di salvezza che siamo chiamati a leggere e rileggere. Per saperla ascoltare, cioè praticare. Insieme, le diverse chiese cristiane e anche gli Ebrei. Insieme e pellegrini di speranza, sapendo che ci è affidata una missione anche verso gli altri popoli, verso altri fratelli. Che il peregrinare in questo giubileo ce li faccia vedere non più nemici ma fratelli».
don Lorenzo Magarelli