Era il settembre del 1976… da poco avevo sostenuto l’esame di maturità e mi accingevo ad iniziare, pieno di entusiasmo e di curiosità, gli studi universitari. Con alcuni amici partii per il classico viaggio di formazione “post-matura”: un “Interail” – ovvero un abbonamento ferroviario che consentiva di viaggiare pressoché ovunque, mi pare costasse 98.000 lire –. Destinazione Trelleborg, Svezia. Era un viaggio lungo il quale avevamo previsto diverse soste: Monaco di Baviera, Amburgo – ma solo per prendere il traghetto per la Danimarca – Copenhagen, Trelleborg e di lì – ci vivevano gli zii di un compagno di viaggio – a Stoccolma e a Oslo. Poi il ritorno con nuove soste ad Amsterdam, Bruxelles e Parigi. Un viaggio indimenticabile: indimenticabili però anche i controlli ai confini. Tanti confini e tanti controlli con il “Passaporto prego”, declinato nelle diverse lingue dei paesi attraversati.
Facciamo un salto in avanti nel tempo: pochi anni fa ho avuto la ventura di accompagnare ad Auschwitz un bel gruppo di studenti della regione. Siamo partiti in treno dal Brennero per risvegliarci a Cracovia: questa volta nessuna ansia per un passaggio di confine – è l’idea del “controllo”, del passare il limite tra un mondo e l’altro che crea l’ansia – nessun passaporto. Una meraviglia.
Che cosa è successo nel frattempo? Il 14 giugno di 40 anni fa i paesi del Benelux, la Germania Ovest – il paese era ancora diviso in due – e la Francia firmavano a Schengen, piccolo centro lussemburghese al confine con Germania e Francia – una scelta simbolica – un accordo che prevedeva «l’eliminazione graduale dei controlli alle frontiere comuni», ovvero la creazione di uno spazio all’interno del quale merci e persone avrebbero potuto circolare liberamente. Vi fece seguito una Convenzione sull’applicazione del trattato, firmata nel 1990, cui avrebbero aderito in successione altri paesi membri dell’Unione europea: Italia, Spagna, Portogallo, Grecia, Austria, Danimarca, Finlandia e Svezia. Fu però soltanto a partire dal 26 marzo di trent’anni fa che la convenzione divenne attiva, allargando progressivamente il numero degli stati europei che vi aderirono. Questo significa che all’interno del sempre più ampio “spazio Schengen” era possibile viaggiare liberamente, magari approfittando del fatto che la meta di un nostro viaggio – altra enorme comodità – era costituita da un paese dove si utilizzava la stessa moneta o dove si poteva usare il proprio “Bancomat”… niente più cambi di valuta, il timore di aver portato con sé pochi liquidi, ma l’idea di essere a casa in Francia come in Spagna, in Italia come in Slovenia. Insomma, uno spazio europeo sempre più grande, sempre più “nostro”, senza ostacoli e confini. La diplomazia e la politica erano state particolarmente lungimiranti e le speranze suscitate dai trattati che regolavano queste libertà erano grandi: sì, perché la politica e la diplomazia servono proprio a creare speranze e aspettative, ad andare incontro ai cittadini, a costruire. Così come i confini dividono, dividono quei sistemi di idee che ne fanno dei baluardi invalicabili a difesa di una singola comunità. Abbiamo assistito, negli ultimi anni, al ritorno ad altrettante forme di nazionalismo che certo non aiutano la reciproca comprensione né alimentano speranze. Inoltre, con diverse motivazioni, diversi paesi europei hanno reintrodotto, sia pur temporaneamente come previsto dal Trattato, i controlli ai confini. Oggi, in quest’anno in cui celebriamo il Giubileo della Speranza, preghiamo perché possa nuovamente sbocciare nel cuore della nostra Europa la pace, una pace rispettosa di tutti, e perché le speranze suscitate tanti anni fa dalla firma di un Trattato e l’Unione europea possano costituire ancora un orizzonte concreto fatto di amicizia, di pace, di conoscenza reciproca: un orizzonte di fraternità.
Fabio Todero