Nella vocazione non siamo mai soli

Intervista a don Alex Cogliati, parroco di San Matteo (Zindis): quest'anno il suo 25° anniversario di ordinazione sacerdotale. La gratitudine a Dio e alla comunità

In occasione della 62esima Giornata mondiale di preghiera per le Vocazioni – che ha per tema “in qualunque genere di vita, non si vive senza queste tre propensioni dell’anima: credere, sperare, amare” tratto dalla Bolla di indizione del Giubileo Spes non confundit – prende avvio una serie di interviste a sacerdoti diocesani, religiose e religiosi che operano in Diocesi e che, quest’anno, celebrano degli anniversari importanti di ordinazione sacerdotale o di professione religiosa.

 

Incontriamo oggi, don Alex Cogliati, triestino, 57 anni, ordinato sacerdote il 20 maggio del 2000 per l’imposizione delle mani del Vescovo monsignor Eugenio Ravignani, è attualmente parroco a San Matteo Apostolo (Zindis). Quest’anno ricorre il 25° anniversario della sua ordinazione sacerdotale.

 

Partiamo dall’inizio. In quale momento della sua vita ha ricevuto la chiamata del Signore alla vita sacerdotale?

Provando a collocarla temporalmente, posso dire che era l’inizio degli anni 90. Io sono cresciuto in parrocchia e quindi, in qualche modo, c’erano già delle basi e direi che la chiamata non è nata improvvisamente, ma è stata parte di un percorso. L’educazione ricevuta a casa, dove c’era una sensibilità religiosa, ma non bigotta o devozionale né impositiva, piuttosto rispettosa delle scelte di ognuno, quindi anche delle mie motivazioni. Nel tempo ho vissuto un’esperienza di volontariato presso la Comunità di San Martino al Campo e sono rimasto colpito dalle figure di sacerdoti che svolgevano il proprio ministero non solo tra sacrestia e chiesa, ma anche nell’ambito dell’aiuto alle persone in difficoltà, per la solidarietà e la giustizia. Avevo conosciuto don Mario Vatta che ho iniziato poi a seguire e anche don Pierluigi Di Piazza.

Poi mi sono dedicato ad approfondire alcuni aspetti importanti della fede e che mi hanno fatto riflettere, in particolare la preghiera profonda, che sentivo più mia, la conoscenza della Sacra Scrittura che ho conosciuto attraverso alcuni incontri e attraverso gli Esercizi Spirituali ignaziani. Partecipavo anche ai Campi Bibbia, proposti dall’Agesci e così ho potuto incontrare anche altri sacerdoti che mi hanno colpito, come don Lucio Gridelli e padre Mario Vit. Ricordo anche l’incontro con don Fabio Ritossa e qualche occasione di accompagnamento spirituale insieme a lui.

E i suoi studi?

Dopo due anni di scuole magistrali sentivo l’esigenza di andare a lavorare, un po’ per impegnarmi concretamente e un po’ perché avevo comunque il desiderio di essere autonomo. Poi ho fatto la Scuola Infermieri e ho quindi lavorato come infermiere, prima in corsia e poi come strumentista di sala operatoria. Era una professione che, a detta di altri, mi riusciva abbastanza bene ed ero molto motivato.

Credo che a un certo punto tutto sia confluito poi nella chiamata al sacerdozio.

E da lì si è aperto un cammino di preparazione con l’ingresso in Seminario. Come ricorda quegli anni?

Sono stati anni davvero molto positivi e ricordo quanto in particolare alcune materie di studio mi abbiano aperto la mente e mi abbiano offerto la possibilità di approfondire la conoscenza della Bibbia. Niente a che vedere con quello che avevo fatto prima degli studi teologici. Ho un bellissimo ricordo anche degli insegnanti del Seminario. Per Sacra Scrittura per esempio don Antonio Bortuzzo, don Giorgio Giordani di Udine, don Santi Grasso di Gorizia e, eccezionale davvero, don Rinaldo Fabris. Per Teologia monsignor Qualizza, Andrea Bellavite, ma anche don Franco Gismano e, soprattutto, don Ermanno Lizzi. Di lui ricordo vari aneddoti, ma in particolare mi ricordo che era talmente bravo che alla fine dei sei anni di corso di Teologia morale, qualcuno di noi gli chiese come mai non avesse scritto un libro e la sua risposta ci lasciò senza parole. Ci disse: “Io non ho scritto un libro perché quello che farete voi con la vostra vita sarà una pagina di questo libro”.

Arriviamo all’anno 2000, al giorno dell’ordinazione presbiterale avvenuta per l’imposizione delle mani di monsignor Eugenio Ravignani. Quali emozioni e quali ricordi conserva di quella giornata?

Fui ordinato sacerdote insieme a don Valerio Muschi e di quel giorno ricordo soprattutto soprattutto il calore, l’accoglienza e la vicinanza di tante, tante persone che avevano fatto parte del mio percorso verso il sacerdozio. Le persone che negli anni avevo incontrato nel mio servizio in parrocchia, in particolare a Muggia. E poi mi sono rimaste dentro le parole della lettura del Libro del profeta Isaia quando dice che “lo Spirito del Signore mi ha inviato a portare il lieto annuncio ai poveri”. Ecco, il lieto annuncio ai poveri, ma davvero a tutti, senza distinzione: è quello che ho sempre cercato di fare. Di Monsignor Ravignani ricordo il mandato che mi affidò: mi disse che sarei andato a insegnare a scuola (e lo faccio ancora oggi) e di fronte alla mia titubanza perché non avevo esperienza mi disse. “Va bene, imparerai”. In più, nel decreto di nomina quando mi chiese di occuparmi della “Cattolica”, ovvero il ricreatorio parrocchiale di Muggia, scrisse che mi mandava lì espressamente per occuparmi dei giovani. Quando venne in visita ricordo che mi disse: “Ricordati il ricreatorio, come un luogo che non è solo per quelli che vengono in chiesa, ma è un luogo dove qualsiasi ragazzo, giovane, ragazza, ragazzo possa trovare una parola… anche chi “buta strambo””.

Tra i verbi scelti per la Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni ci sono credere, amare, sperare. Come le risuonano rispetto alla sua esperienza personale?

Mi viene in mente la prima lettera ai Corinzi, al capitolo 13, l’inno alla carità, l’inno all’amore, dove viene fatta una gerarchia, tra fede, speranza, amore: più grande di tutto è l’amore. Sento che l’amore contiene tutto, anche credere e sperare. Anche nel rapporto con le altre persone. È questo amore che deve portarmi, e deve portarci tutti, a credere nelle persone, a credere negli altri e a sperare che anche situazioni negative possano evolvere in meglio. L’amore per Dio e l’amore per il prossimo: in questo c’è il cuore del Vangelo e del messaggio di Gesù. Questa concretezza dell’amore l’avevo vista nell’esempio dei sacerdoti che ho incontrato negli anni, ma anche di tante persone semplici e ho avuto conferma di quanto ciò sia importante.

Guardare e amare l’altro credendo nell’altro e guardando il positivo che porta sempre con sé, anche se non fa parte delle nostre cerchie.

Nel Messaggio per la Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni, che ci ha lasciato Papa Francesco, a un certo punto lui dice che “la vocazione non è mai un tesoro che resta chiuso nel cuore, ma cresce e si rafforza nella comunità che crede, ama e spera. E poiché nessuno può rispondere da solo alla chiamata di Dio, tutti abbiamo necessità della preghiera, del sostegno dei fratelli e delle sorelle” Quanto è stata importante il sostegno della comunità e della preghiera di tutti?

Quello che sono e che sono diventato, il modo in cui svolgo il mio servizio, credo sia grazie soprattutto a queste due componenti, cioè la vicinanza degli altri e la preghiera, soprattutto se è preghiera condivisa, fatta assieme.

Anche nei momenti di difficoltà?

Certamente. La vicinanza e la preghiera aiutano molto e anche la critica costruttiva da parte di qualcuno aiuta a crescere, ma non il pettegolezzo, come ha ricordato tante volte Papa Francesco, perché questo è la rovina. Io l’ho sperimentato e non mi è stato d’aiuto. La critica costruttiva, invece, aiuta senz’altro.

A distanza di 25 anni dalla sua ordinazione sacerdotale, anche alla luce di quanto ci ha raccontato, può dire che ne è valsa la pena?

Ne è valsa la pena di sicuro. Vale sempre la pena seguire il Signore. Però senza esaltazioni, affrontando passo dopo passo quelle che sono le intuizioni, i consigli, ciò che uno sente nella preghiera, senza prendere decisioni affrettate, ma anche senza lasciarsi prendere dalla paura perché la paura non porta a nulla. È importante, piuttosto, scoprire la nostra chiamata attraverso l’incontro con le persone perché è lì che Dio ci parla. E accettare gli alti e i bassi nella Chiesa perché ci sono e possono rafforzare o mettere in discussione la scelta di vita. Secondo me dobbiamo sempre ricordarci che nella vocazione non siamo soli a fare le cose ed è insieme che si può costruire qualcosa. Io sono contento della Chiesa e di Dio. E ringrazio anche per aver potuto vivere una certa continuità pastorale nelle parrocchie in cui ho prestato e presto il mio servizio perché mi ha permesso di veder crescere ed evolvere nel tempo tante situazioni e tante persone. Ed è stato molto bello.

A cura di Luisa Pozzar

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