Intervista a don Andrea Mosca, parroco della Parrocchia dei Santi Ermarcora e Fortunato: quest'anno il suo 25° anniversario di ordinazione sacerdotale: "Ringrazio Dio"

Sulla scia della 62esima Giornata mondiale di preghiera per le Vocazioni che ha per tema “in qualunque genere di vita, non si vive senza queste tre propensioni dell’anima: credere, sperare, amare” tratto dalla Bolla di indizione del Giubileo Spes non confundit, prosegue la serie di interviste a sacerdoti diocesani, religiose e religiosi che operano in Diocesi e che, quest’anno, celebrano degli anniversari importanti di ordinazione sacerdotale o di professione religiosa.

Incontriamo oggi don Andrea Mosca, triestino, 51 anni, ordinato sacerdote nella Parrocchia di San Vincenzo de’ Paoli il 13 maggio del 2000 per l’imposizione delle mani del Vescovo monsignor Eugenio Ravignani. È attualmente parroco della Parrocchia dei Santi Ermacora e Fortunato nonché Direttore dell’Ufficio Catechistico diocesano e Giudice presso il Tribunale ecclesiastico Regionale Triveneto. Quest’anno anche per lui ricorre il 25° dell’ordinazione ordinazione sacerdotale, che ha ricordato il 13 maggio scorso con una celebrazione eucaristica nella Parrocchia di Roiano, con numerosi concelebranti.

Andiamo all’origine di tutto. A quando risale la sua vocazione? Può collocarla in un momento o in un luogo preciso?

Già nel 1987 avevo iniziato a partecipare a dei campi vocazionali organizzati in provincia di Belluno, nella casa di Fonzaso, dalla congregazione dei Padri Canossiani. Nella mia parrocchia, San Vincenzo de’ Paoli, infatti, le madri canossiane seguivano il gruppo dei Chierichetti di cui facevo parte. Fu fondamentale il dialogo con i sacerdoti, don Bruno Speranza e don Giorgio Bacci, che era il mio confessore. Pian piano è maturata l’idea dell’entrare in Seminario.

Ricordo con precisione il momento della chiamata: era la veglia di Pasqua del 1991 e mi trovavo in chiesa, vuota e buia, per preparare la celebrazione. Mi sono messo a pregare davanti al crocifisso che c’è al centro, nella navata di sinistra. Era illuminato solo quello e proprio lì ho sentito forte di dire “Solo Cristo, solo il crocifisso nella mia vita” e ho deciso di donarmi totalmente a Lui. Nel luglio dell’anno dopo, era il 1992, subito dopo l’esame di maturità, sono entrato nel Seminario dei Padri Canossiani di Verona, a Poiano.

Ecco, il Seminario, ma prima la maturità. Quale scuola superiore ha frequentato?

Ho frequentato quello che all’epoca era chiamato Liceo psicopedagogico, il Carducci. In quegli anni mi ritrovavo a pregare le Lodi nella chiesa di Sant’Antonio Vecchio insieme a Lorenzo Magarelli, che poi fu ordinato sacerdote nel 1999. Da un punto di vista umano, ricordo con tantissimo affetto un gruppo di compagne che mi sono state vicine lungo tutto il percorso: erano presenti a tutte le tappe della mia vita e non ricordo un solo momento di vacanza in cui non ci trovasse tutti e cinque per parlare e raccontarsi. E tutt’ora è così. Ringrazio il Signore per queste persone.

E poi?

Dopo le scuole superiori ho fatto i sei anni di Teologia allo Studio Teologico San Zeno di Verona, legato allo Studio Teologico dell’Università Urbaniana. Ho conseguito il baccalaureato e ho conseguito anche la licenza in diritto canonico al Marcianum di Venezia.

Degli anni del Seminario, dello Studio Teologico cosa ricorda?

Dal punto di vista formativo conservo una gratitudine immensa verso lo Studio Teologico San Zeno. Ancora oggi attingo a qualche dispensa. Ricordo i corsi di catechetica – ringrazio Dio di aver avuto padre Enzo Biemmi come docente, con la sua passione – mi hanno aiutato nel mio impegno con la catechesi in parrocchia, dai bambini agli adulti. Penso alla ricchezza degli studi patristici: don Giuseppe Laiti che mi ha fatto nascere la passione, per esempio, per Sant’Agostino. Penso agli studi biblici… una gratitudine immensa per i contenuti, ma anche per la metodologia che prevedeva – e all’epoca non era affatto scontato – uno studio trasversale a varie materie. Questo mi ha aiutato ad avere una visione ampia delle cose, anche nel servizio in parrocchia.

Dal punto di vista umano, ricordo il legame con quattro compagni di classe – ci chiamavano “I tre moschettieri”, anche se poi eravamo in cinque – tutti di realtà diverse, cosa che ci educava alla collaborazione. Fra’ Tiberio Zilio, che è stato parroco anche qui a Trieste nella parrocchia di Via Giulia e ora è parroco a Lisbona, siamo stati ordinati lo stesso giorno, lui la mattina al Santo, io il pomeriggio qui a Trieste. Penso a don Robert Frainer, della congregazione di Don Provolo di Verona per l’educazione dei sordomuti per il quale ho tenuto l’omelia durante la sua prima Messa. Penso a padre Gianfranco Lunardon, che attualmente è Vicario generale dell’Ordine dei Camilliani per l’assistenza ospedaliera. A don Simone Corradini, sacerdote diocesano di Verona. Un gruppo compatto nello studio e nel vincolo di preghiera e di ricordo spirituale.

E poi l’ordinazione a Trieste. Fu monsignor Ravignani a donarle il sacramento dell’Ordine…

Monsignor Ravignani mi ha ordinato sia Diacono a Verona, quando ero un religioso canossiano, sia sacerdote a Trieste. Desiderò celebrare nella mia parrocchia di origine, San Vincenzo de’ Paoli, perché era dal 1954 che lì non c’era un’ordinazione sacerdotale.

Cosa ricorda di quel giorno?

La prima immagine che mi viene in mente? Appena raggiunto il mio posto, il primo istinto che ho avuto vedendo i sacerdoti che salivano sul presbiterio è stato di girarmi verso la navata centrale e scappare via. “Troppo grande quello che sta per avvenire” mi dicevo… una cosa del genere non si può vivere solo con forze umane: sarebbe un’illusione e un fallimento iniziale pensare a questo. Il secondo ricordo: tantissima gioia e gratitudine perché la chiesa era stracolma, perché era la mia parrocchia, ma c’erano tutti i giovani che ho servito nelle parrocchie negli anni del Seminario a Verona. Erano tutti presenti. Vedere l’affetto, la vicinanza, la preghiera… una parola? Gratitudine. Fu la mia madre spirituale degli ultimi anni di Seminario, un’Abbadessa agostiniana, a insegnarmi che la gratitudine è la memoria del cuore e la memoria del cuore è la gratitudine… E poi ricordo la parola “preghiera” pronunciata da monsignor Ravignani. Finita la Messa ricordò, con gratitudine, le persone che avevano segnato la vita della parrocchia e la mia. Don Spinetti, padre Egidio Rudez, canossiano; ma anche Andrea Bottali, un mio caro amico che è mancato prematuramente: la sua morte per me fu un momento di forte crisi vocazionale.

Cosa ha fatto il 13 maggio di quest’anno?

Ho fatto le stesse cose che feci 25 anni fa, cioè andare a Messa la mattina e poi andare a San Giusto a pregare sulla tomba di Monsignor Bellomi, altra figura di vescovo fondamentale nel mio cuore e poi una tappa nel Monastero Benedettino, all’epoca era sotto a San Giusto, in preghiera fino all’ora di pranzo. Poi a casa a prepararmi per la Messa. Il 25esimo di sacerdozio è un tempo che dura un anno. Non è una sola giornata di festa, è un anno di meditazione che va dal primo gennaio al 31 dicembre…

In questo cammino, quale ruolo ha avuto la sua famiglia di origine?

Per prima ricordo con affetto e gratitudine la nonna materna. Era di origine dalmata e venne a vivere a Trieste dopo aver sposato un militare italiano. Con la sua semplicità mi ha trasmesso la bellezza della fede, una fede semplice, profonda e il valore della preghiera: mi sono sempre sentito molto sostenuto dalla sua preghiera. Mia sorella mi ha vissuto poco perché sono andato via per entrare in Seminario quando lei iniziava la prima superiore. Mamma mi è sempre stata molto vicina. Chi, forse, ha fatto un po’ più fatica a capire all’inizio, ma che poi è stato l’uomo più felice sulla faccia della terra, è stato papà. Era molto preoccupato che la scelta potesse non essere quella giusta…

Poi lei a un certo punto rientra in diocesi a Trieste…

Sì, non ho problemi a parlarne. Sono davvero grato dell’esperienza e della vita da consacrato che ho vissuto e il giorno del mio venticinquesimo è venuto il vicario generale dell’Istituto, che era anche un mio compagno di studi. Con i canossiani io ho imparato a essere prete. Dopo alcune esperienze in parrocchia, prima a Conselve dove curavo l’oratorio e poi a Milano in una parrocchia appena costruita, nel 2008 l’Istituto mi chiese di andare a Venezia a studiare diritto canonico. La cosa non mi lasciò molto felice, lo dico onestamente. In quel periodo, iniziai a ripensare alla mia vocazione… Sentivo dentro di me forte la vocazione alla vita parrocchiale, all’essere pastore, che è una dimensione tipica del sacerdozio diocesano. E quindi incominciai a farmi seguire da monsignor Paolo Doni, che era stato il mio parroco a Padova e poi vicario generale della diocesi, venuto a mancare un paio di anni fa. Con lui ho iniziato un cammino di discernimento: mi aiutò a comprendere che il Signore mi stava chiamando alla dimensione pastorale. Mi disse: “La cosa migliore è tornare nella propria vita, dove è nata la vocazione”. Ne parlai con monsignor Ravignani, che all’epoca era diventato da poco vescovo emerito. E lui mi disse che era sicuro che fosse Trieste il mio posto e dovevo tornare. Ne parlò con il Vescovo Crepaldi che mi accolse. Nel luglio del 2010 eccomi quindi a Trieste, inserito a San Vincenzo de’ Paoli, dove sono rimasto fino al settembre del 2014, quando mi è stato chiesto di diventare parroco a Roiano. Un anno dopo, mi fu affidata la pastorale giovanile della diocesi.

Torniamo alla giornata mondiale di preghiera per le vocazioni, che abbiamo vissuto un paio di settimane fa. Papa Francesco ha lasciato il messaggio per questa giornata con tre verbi, credere, amare e sperare. Quali di questi sente più vicino al suo vissuto? E “poiché nessuno può rispondere da solo alla chiamata di Dio, tutti abbiamo la necessità della preghiera e del sostegno dei fratelli e delle sorelle”, quanto è stata importante la comunità nel suo cammino e quanto è stato importante anche il sostegno della preghiera di tutti?

Con i giovani io uso sempre questa trilogia: chi ama si fida, chi si fida si affida. E questo per me è credere. Cioè sentirsi amati e amare, però l’amare non può essere solo uno slogan da Baci Perugina. Amare è fidarsi, fidarsi dell’altro e fidarsi con tutto quello che comporta. La fiducia è nei confronti di Dio. Sperare vuol dire affidarsi, amare è il filo conduttore, credere è quello che li contiene tutti e due. Non puoi credere se non ami e se non ti senti amato. La speranza alimenta questo cammino. ispetto alla dimensione comunitaria non posso pensare al mio sacerdozio – ma a nessun sacerdozio – senza la presenza di una comunità: il prete non diventa prete per sé, ma per una comunità. Pensiamo all’Eucaristia: non la consacri per te stesso, ma perché sia fonte di grazia per tutta la comunità e sia il culmine a cui tutta la comunità tende. Il Concilio Vaticano II ce lo ricorda.

Nella mia vita – con tutte le dinamiche delle relazioni, quindi di gioia ma anche di dolore – non posso che essere grato per aver avuto delle comunità attorno a me. Per me la comunità è sempre stata una famiglia con la quale compatire, trovare passione assieme. Quando qualcuno della comunità viene a mancare, è come se morisse una persona a me cara. Quando vedo la gioia o un momento bello della vita di una persona, gioisco come se fosse un figlio o un fratello. Per me la comunità è questo. Temo che nella Chiesa di oggi si stia un po’ perdendo questa dimensione. Dobbiamo ricordarci che il sacerdote è una presenza. Lo abbiamo imparato durante la pandemia. Siamo chiamati a essere nella comunità per la comunità. Consapevoli anche di tutte le nostre fragilità.

A distanza di 25 anni se si guarda indietro, alla luce di tutti gli incontri, le esperienze, i vissuti può dire che ne è valsa la pena?

Questa domanda ti torna davanti tutti i giorni, soprattutto quando sperimenti i tuoi limiti, o vedi, o verifichi i fallimenti. Io porto un bagaglio di tante cose belle: se penso ai giovani che hanno creato una famiglia… se penso a qualche bambino che è diventato prete… se penso anche ai momenti condivisi di dolore… tutte cose belle che ti portano a dire che ne valsa la pena. Poi è vero, ci sono anche tante fatiche, i momenti in cui qualcuno si è allontanato dalla Chiesa per causa mia, perché magari ho detto una parola di troppo, ero nervoso e ho reagito male… È una domanda che ti poni… ma il sacerdozio non è quello che fai. Donarsi totalmente a Dio e dire “Tu sei il mio tutto”, questo sì che ne è valsa la pena, perché dare la mia piccola risposta al suo amore dà senso e significato a ciò che faccio. La fondatrice dei Canossiani aveva questo motto, “Dio solo e questi crocifisso ”. Io tante volte mi ripeto “Dio solo”, anche nei momenti difficili… “Dio solo”. Alla fine tutto deve tornare a lui. Ne è valsa la pena? Sì, per Dio solo, sì.

Rispetto al suo incarico come Giudice del Tribunale ecclesiastico del Triveneto vuole dirci qualcosa?

Quando si parla di Tribunale ecclesiastico e di fare il giudice, sembra che si parli di un mondo a sé, fatto di leggi, di qualcosa di freddo. Dopo un iniziale “no” al vescovo, poi accettai. Sono già otto anni di incarico e da cinque faccio il giudice e sto scoprendo tutta la dimensione pastorale di questo ruolo. Durante le udienze le persone stanno lì, parlano e si raccontano e tu devi avere la pazienza di ascoltarli e di cogliere – con gli aspetti giuridici, ma nella preghiera- quella che è anche la verità di Dio su un matrimonio, su una storia. Vedo gente che, finita l’udienza, e non sa ancora come andrà il procedimento, va via con un sorriso e dice “grazie per avermi ascoltato”. Quindi non per forza l’aspetto giuridico è freddo. Può essere fredda anche una celebrazione eucaristica: dipende con che cuore fai ogni cosa.

C’è qualcosa che non è emerso e che vuole dire?

Ribadisco il mio grazie. Alla mia comunità di Roiano io dico grazie. Per l’affetto, per l’amore, per la pazienza. E dico sempre che i grazie li trasformo in benedizione: nel dire bene per le persone.

 

A cura di Luisa Pozzar

 

 

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