Il 12 giugno 1945, ottant’anni fa. Entrano in vigore gli accordi di Belgrado fra Gran Bretagna e Stati Uniti da una parte e Jugoslavia dall’altra. Da quel momento la Venezia Giulia, con le sue province di Gorizia, Trieste, Pola e Fiume, viene divisa in due zone di occupazione militare, in attesa delle decisioni della Conferenza della pace in merito al futuro confine tra Italia e Jugoslavia. La zona A viene affidata ad un Governo militare alleato (GMA) e comprende Trieste e le linee di comunicazione ferroviarie e telegrafiche verso l’Austria, attraverso il Carso, la valle del Vipacco e quella dell’Isonzo. In più, alla zona A viene assegnata anche la città di Pola, con la quale peraltro le comunicazioni sicure sono solo quelle via mare. Tutto il resto della regione è zona B, affidata ad un’amministrazione militare Jugoslava (Vuja).
È questo l’esito della prima crisi diplomatica del secondo dopoguerra, la “crisi di Trieste”, che a sua volta è la figlia della “corsa per Trieste”, che ha visto le truppe jugoslave entrare per prime in città il 1 maggio ed instaurarvi la propria amministrazione, mentre quelle britanniche sono arrivate il giorno dopo, in tempo per accogliere la resa tedesca ed occupare il porto. Dunque, ecco servita una sovrapposizione non concordata di zone di occupazione tra alleati che diffidano gli uni degli altri, vale a dire un orrendo pasticcio diplomatico che potrebbe anche degenerare in uno scontro aperto. In effetti, entrambi i contendenti mostrano i muscoli ammassando truppe ed il comandante supremo alleato del Mediterraneo, Alexander, arriva a paragonare pubblicamente il tentativo jugoslavo di fatto compiuto su Trieste alle mosse di Hitler e dei giapponesi all’origine della seconda guerra mondiale.
La materia è incandescente. Trieste è il simbolo dell’irredentismo sloveno e croato, fatto proprio dal movimento di liberazione e poi dallo Stato jugoslavo. Inoltre, per i comunisti jugoslavi Trieste è la porta dalla quale far entrare la rivoluzione in Italia. Gli anglo-americani lo sanno benissimo e preferirebbero evitarlo. Inoltre, hanno assoluto bisogno del porto per alimentare le loro guarnigioni in Austria. Infine – ed è il punto decisivo – esiste una questione di principio: non morale, per carità, ma di equilibrio geostrategico. In Polonia, che sta nel teatro di operazioni sovietico, i russi gestiscono le occupazioni nel modo più utile ai loro interessi. Nella Venezia Giulia, che sta nel teatro di operazioni anglo-americano, quello mediterraneo, gli alleati avrebbero il diritto di fare lo stesso e invece Tito, considerato la longa manus di Stalin, mette le mani su Trieste e non la vuole mollare. Un’asimmetria del genere pare intollerabile a Washington come a Londra e quindi il 7 maggio il Presidente Truman prende la sua decisione: bisogna “sbattere fuori” gli jugoslavi da Trieste.
Ne seguono settimane convulse, con gli jugoslavi che resistono caparbiamente e gli anglo-americani che decidono di saltare Tito e rivolgersi direttamente a Stalin. E Stalin si adegua. Nonostante il linguaggio brusco delle pubbliche esternazioni, è la conferma che non siamo ancora in epoca di guerra fredda, ma che i leader mondiali hanno come priorità la composizione delle divergenze. Inoltre, al Cremlino Trieste non importa affatto: il via libera a Tito è stato dato solo a patto che non provochi una crisi ed invece la crisi è scoppiata, il che è contrario agli interessi globali sovietici. Ergo, gli jugoslavi devono adeguarsi e sedersi a trattare con gli anglo-americani. Ciò significa, automaticamente, che dovranno ritirarsi da Trieste e Gorizia, perché queste saranno le richieste minime alleate. A Belgrado si cerca di resistere, Tito si lascia andare addirittura ad una protesta pubblica contro le interferenze esterne che gli guadagna una formidabile ramanzina dell’ambasciatore russo, ma alla fine il negoziato è inevitabile e conduce all’accordo.
La crisi è finita ma lascia strascichi pesantissimi. Durante il periodo della loro amministrazione, le autorità jugoslave hanno usato il pugno di ferro e senza alcun guanto contro i loro avversari. In tutta la regione è stata condotta la feroce repressione dei “nemici del popolo”, che nel resto dei territori sloveni e croati appena liberati dai tedeschi ha causato forse centomila vittime. Nelle province appartenenti all’Italia, ma che gli jugoslavi considerano già annesse alla Jugoslavia, le vittime sono alcune migliaia, in larghissima maggioranza italiane, perché è nel gruppo nazionale italiano che si concentrano gli oppositori al nuovo regime. Fra questi, vengono assiepate persone e categorie le più diverse: squadristi, spie dei tedeschi, torturatori, uomini delle istituzioni dello stato fascista, quadri del partito e delle organizzazioni di massa, militari della RSI, donne che hanno sposato italiani, antifascisti non comunisti, combattenti del Corpo volontari della libertà che non si sono posti agli ordini dei comandi jugoslavi, come pure vittime di rancori personali e conflitti d’interesse.
Quando un’ondata d’arresti coinvolge fra le 12 e le 15 mila persone, anche se condotta in modi furtivi genera un trauma, anche perché, dopo l’esperienza delle foibe istriane del 1943, tutti fanno l’equazione “sparizione vuol dire uccisione”. Fortunatamente non è così, perché la maggior parte dei deportati prima o poi viene rilasciata, ma molti non ritornano e le famiglie sono destinate a macerarsi anche per decenni nell’incertezza. Il trauma in tal modo si consolida nel ricordo e diventa uno dei pilastri delle memorie divise. Per andar oltre bisognerà arrivare, ben che vada, al 2020.
Raoul Pupo
Grazie per aver letto questo articolo. Se vuoi restare aggiornato ti invitiamo a iscriverti al nostro canale Whatsapp cliccando qui