Nei giorni della memoria, che ci riportano senza troppi convenevoli a quello che fu uno degli eccidi più feroci in Europa dalla fine della seconda Guerra Mondiale, il genocidio di Srebrenica, sentiamo l’urgenza di raccontare – attraverso la voce di chi per mestiere e per passione per anni ha narrato le bellezze e le crudezze delle terre a noi così vicine, i Balcani – il contesto nel quale tutto ciò ebbe origine, ma anche il prima e il dopo. Per dire con forza che la violenza e la guerra non sono operazioni “chirurgiche”, ma sono luoghi nei quali l’umanità rischia l’annientamento, azioni che lasciano segni profondi. Per dire anche che, nonostante tutto, i germogli di una riconciliazione possibile continuano a crescere anche in quei crateri di dolore e morte. E, come spesso accade, nel buio di certi momenti ci sono persone che con la loro testimonianza di vita offrono la luce necessaria per guardare oltre. Come fu il Vescovo Lorenzo Bellomi per la Chiesa e la Città di Trieste. Ascoltare il racconto di Paolo Rumiz, in una torrida sera di luglio, è stato prezioso.

Partiamo da una data: l’11 luglio del 1995. Cos’era Srebrenica prima e cos’è stata Srebrenica dopo?

Questa è una domanda che può essere allargata alla Bosnia in generale, ma che riguarda anche quella valle maledetta in particolare. In generale la Bosnia è stata, e in minima parte lo è ancora, un paese plurale, quindi con presenza di diverse religioni, costumi, tradizioni. Un Paese che per secoli era stato turco, pur essendo abitato da popolazioni slave, e poi era diventato austro-ungarico. Il simbolo di questa unità, di questa situazione di frontiera, è la biblioteca di Sarajevo, che fu costruita dagli austro-ungarici in stile moresco, quindi come riconoscimento di una tradizione secolare che faceva parte del mondo dell’Oriente. Tutto questo oggi esiste molto meno perché la guerra ha creato una divisione tra le diversità interne del Paese, che non erano diversità etniche, tranne piccoli casi, e non erano neanche differenze religiose, perché, specialmente dopo il comunismo, la Bosnia era diventato un Paese laico dove le religioni contavano poco. Contavano, però, le tradizioni, le appartenenze, le differenze dei cognomi, dei nomi… Tutto questo è più o meno finito. Oggi c’è stato un irrigidimento etnico delle parti, grazie anche all’Accordo di Dayton, che ha impostato la pace sulla divisione tra i diversi. Se dovessimo renderla nel nostro dialetto triestino, si potrebbe riassumere così: “Se li separemo no i se maza più”… Questo è un po’ il senso, no? Però all’inizio la reazione della Bosnia fu formidabile, nel senso che per esempio i cittadini di Sarajevo di religione ebraica, che erano molti, moltissimi, difesero la città insieme ai musulmani e anche a una parte dei serbi, rivelando che quello sotto sotto non era uno scontro etnico, ma era uno scontro tra città e campagna, cioè tra una città multinazionale aperta e una campagna che invece era un mosaico di villaggi, di diversa religione, diverse tradizioni, etc. Ecco, tutto questo è finito perché la guerra ha irrigidito le parti.

E Srebrenica?

Per quanto riguarda Srebrenica, io l’ho conosciuta prima dell’inizio della guerra e poi poco prima del massacro dell’11 luglio. Prima della guerra era una località mineraria, abitata da entrambe le religioni, cioè lì vivevano sia cristiani ortodossi che musulmani e questa città aveva anche una sua consistenza industriale perché Tito aveva fatto installare, nel cuore delle montagne, una fabbrica di motori marini (tanto per dare un’idea di cosa significasse il volere di Tito: anche una cosa priva di senso, per un suo ordine diventava realizzabile). Alla fine di tutto questo Srebrenica è diventata una città spettrale dove ormai non vivono che i serbi, ma è una città dimezzata perché manca tutta l’altra componente. È piena di case vuote, è una città dove le vedove di tutti quei morti avevano sperato di poter ricominciare… ma non è stato possibile perché come si fa a vivere in una città dove incontri ogni giorno dal panettiere colui che ha scannato tuo figlio? Come si fa a vivere in una città dove i colpevoli non sono stati puniti salvo ad alto livello, come lo stesso Mladic e pochi altri? Come fai a vivere in un posto che sa di morte? Dove mandi i tuoi figli a fare ginnastica? In una palestra dove tra le doghe di legno c’è ancora il nero riflesso del sangue versato? Non è possibile. E infatti, a distanza di anni, queste donne – che come tutte le donne del mondo avevano capacità di reazione superiore ai maschi – non ce l’hanno fatta e si sono trasferite definitivamente nella zona di Tuzla, che è lì a un centinaio di chilometri. Quindi Srebrenica è una città morta, una città spettrale che d’inverno non raccomando a nessuno e dove ormai la presenza dei morti che sono sepolti lì a poca distanza nel memoriale di Potočari è diventata insistente.

In quel giorno drammatico dell’11 luglio lei dove si trovava?

Non ero lì in Bosnia. Ero a casa – uno dei rari momenti – perché ero stato al funerale di Alexander Langer che era uno che aveva sentito la Bosnia, giustamente, come la proiezione di un’Europa che ormai rinnega la coesistenza e che consente una Bosnia divisa per etnie, dove gli stati omogenei sono divisi per etnie tra di loro e lui si è ucciso anche per questo impiccandosi a un albicocco. Ho dei ricordi molto precisi di Alex… le conferenze sia in Alto Adige sia in altre parti d’Italia fino al 1993, quindi due anni prima della sua morte. Io mi trovavo ancora a Trieste dove lavoravo per Il Piccolo, ancora prima di andare a Repubblica qualche anno dopo. Ricordo perfettamente quel giorno. Non ci fu una notizia immediata e folgorante, ma c’era un tam tam che qualcosa di oscuro stava accadendo, che i caschi blu chiedevano di bombardare le linee serbe a scopo dissuasivo, ma avevano avuto l’ordine di non farlo dagli alti comandi dell’ONU. Ero a casa mia, ma mi ricordo che quando ho avuto la percezione dell’evento mi è venuto un tale eccesso di rabbia e, successivamente, di pianto… non solo per i morti, ma per l’impotenza scandalosa dell’Europa. In quel frangente ho telefonato a quello che allora era il Vescovo di Trieste, Lorenzo Bellomi, e tra un singhiozzo e l’altro mi sono confessato con lui per un’ora.

Cosa le disse il Vescovo Lorenzo?

In questa lunga telefonata, lui rimase molto in silenzio di fronte all’indicibilità dell’accaduto. Era dal 1945, quando ci fu lo sterminio degli ebrei, che non si vedeva una cosa del genere in Europa.

Era la prima volta che parlava con lui o c’erano state altre occasioni in cui vi eravate parlati? Perché ha deciso di prendere in mano il telefono e chiamare proprio lui?

Pur essendo io un anticlericale, la sua attività pastorale mi colpì molto negli anni, perché era un uomo che stava tra la gente. Ricordo un episodio in cui lui trovò in pieno inverno un mendicante che dormiva per strada battendo i denti: se lo caricò sulla schiena e lo portò nel Palazzo Vescovile e lo fece dormire lì. Se facciamo un confronto con quello che la politica ci offre oggi, posso capire perché amai quell’uomo. Oggi siamo passati dall’accoglienza alla deportazione dei poveri ed è una cosa che non riguarda soltanto gli stranieri, ma un giorno potrebbe riguardare anche noi.

Foto Archivio Curia Vescovile di Trieste

Cosa ricorda in particolare di monsignor Bellomi?

Conservo un ricordo molto forte delle settimane prima della sua morte. Andai a trovarlo con don Mario Vatta sulle colline del Veronese, dove stava trascorrendo il tempo della sua malattia, a casa sua, quindi… ci si presentò davanti un uomo che irradiava luce. L’emozione fu pazzesca. Ricordo che guardai attonito don Mario Vatta, accanto a me, alla mia destra, e gli dissi “Ma tu vedi quello che vedo io?”. E lui fece di sì con la testa. Ecco lì mi resi conto di come quell’uomo avesse una caratura veramente straordinaria. Era molto, molto vicino all’invisibile, a Dio. Avevo la sensazione che questa energia che lui emanava non restasse dentro di me, ma mi attraversasse per ricollegarsi con qualcosa di enorme.

Tornando a quella telefonata dell’11 luglio ‘95, oltre al silenzio del Vescovo Lorenzo, c’è qualcosa che le disse in particolare, che può condividerci, e che ricorda anche a distanza di 30 anni?

Sì, qualcosa ricordo. Mi disse una cosa del tipo “Attento, Paolo, sappi che la speranza nasce nel cuore della disperazione”. Era come se mi dicesse che bisognava passare attraverso tutto questo per poter rafforzare la propria testimonianza in qualcosa di migliore. Come a dire che solo gli uomini che hanno sofferto sono in grado di capire, di gioire, di dare agli altri. Quelli che non hanno sofferto non capiscono molto della vita… questo è il senso di ciò che mi disse quel giorno.

Lei iniziò quella telefonata piangendo, con dentro questo mare di rabbia, misto a dolore. Dopo quella telefonata in lei cambiò qualcosa?

Sì, la convinzione che in quel triangolo benedetto e maledetto dell’Europa, parlo della Bosnia, nel cuore del male crescesse anche una straordinaria capacità di empatia, di bontà e solidarietà. Mi ero accorto che proprio durante tutta la guerra, Sarajevo, ma anche Tuzla, aveva espresso il meglio di sé. Era come se tutta quella negatività facesse splendere di più il buono che stava in quel mondo. Ci si aiutava, in queste città, molto di più durante i bombardamenti che dopo, quando è arrivata la pace. È apparentemente un paradosso, ma in realtà non è così. Quelle città erano un esempio, un focolaio di coesistenza e aiuto reciproco. Quindi ho capito che avrei dovuto testimoniare più quello che la guerra. Lo avevo già intuito per conto mio, ma quel giorno ne ebbi un’ulteriore conferma.

Torniamo alla cronaca di quel giorno… diceva che all’inizio le informazioni erano frammentarie e non ufficiali…

Nel corso delle ore ho cominciato ad avere notizie sempre più precise e drammatiche. Negli anni, a questo tragico evento, avrei dedicato anche un libro. Diciamo che questo fatto ha mostrato come, proprio a causa dell’inazione della comunità internazionale di fronte al massacro stesso, la guerra in Bosnia non fosse l’ultima guerra di un’epoca barbarica di vendette tribali, ma fu assolutamente e soprattutto l’inizio di un nuovo mondo che diventava sempre più intollerante nei confronti della pluralità etnica.

Cioè, secondo lei, quanto accaduto a Srebrenica si può collegare a ciò che viviamo oggi con i conflitti in atto nel mondo?

Certo, da lì è partito tutto, da lì è partita tutta una serie di guerre che sono arrivate fino a Gaza, di fronte alle quali l’Europa ha perso l’onore. L’onore e la credibilità, insieme alla capacità di intervento diplomatico e quindi posso dire che se l’Europa, come credo, è definitivamente morta in Medio Oriente oggi, posso anche dire che ha cominciato a morire a Srebrenica.

Trieste è una città che ha già tante ferite, frutto della sua storia. Sanguinavano ancora anche quando è scoppiata la guerra nei Balcani. Da cronista, ma anche da cittadino, ricorda quale impatto il genocidio di Srebrenica ebbe sulla città?

Direi che molti triestini si accorsero che un grande numero di jugoslavi o di ex-jugoslavi, come si vuole dire, era affluito nella città, considerata una delle stelle polari per gli abitanti della Federazione. Trieste, “città dei jeans e del caffè”, la conoscevamo tutti e per tutti era un po’ un mito. Quindi arrivarono qui in molti e la città fu cambiata da questo forte afflusso di manodopera edile, soprattutto, che veniva dalla stessa città e dalla stessa zona in cui era nato Slobodan Milošević, quello che ha incendiato un po’ i Balcani, cioè Požarevac, e ha visto anche che questa presenza di serbi, ma anche di bosniaci e una parte di croati, all’estero, coesisteva senza problemi. Questo fu avvertito senz’altro… Ricordo che, in quel periodo in cui era molto facile demonizzare tutti i serbi anche se le differenze all’interno di ogni gruppo etnico erano enormi, scrissi in apertura su Il Piccolo una lettera in cui parlavo delle mani dei serbi, le mani dei serbi che avevano costruito una buona parte della città attraverso il loro lavoro, la loro fatica, quindi era un riconoscimento per loro. Da allora partecipo alle più importanti cerimonie nella Chiesa di San Spiridione e cerco di stare vicino a quelli che se ne sono andati dal mondo balcanico, dichiarando spesso la loro distanza da quanto è accaduto.

Fare i dovuti distinguo in queste situazioni è importante…

Fondamentale. Io prendevo sempre la parte dei più deboli. All’inizio, quando la guerra è andata contro la Croazia, stavo con i croati. Quando ad essere aggrediti sono stati i musulmani di Bosnia, ho cercato di testimoniare la guerra partecipando all’assedio assieme a loro. E quando alla fine della guerra i serbi abitanti ai confini meridionali della Croazia sono stati espulsi e si sono trasferiti con i loro trattori e tutte le loro masserizie e la famiglia in un esodo impressionante verso Belgrado e il Kosovo, ho sentito grande empatia anche per loro. È lo stesso motivo per cui oggi, di fronte a quanto accade in Medio Oriente, sento, nonostante il mio riconoscimento per l’apporto che la cultura ebraica mi ha dato, una profonda empatia per gli abitanti di Gaza sotto bombardamento.

Sono passati trent’anni e possono essere tanti o pochi. Dipende. La memoria di questo genocidio, secondo lei, è ancora viva o esiste un rischio concreto di dimenticare?

Ma è anche umano dimenticare l’orrore, no? Poi Trieste soprattutto aveva un modo sommario – ma sotto sotto anche un po’ saggio – di elaborare quanto accadeva. Mi ricordo che alcuni dicevano “i xé cativi dentro” riferendosi ai serbi e mettendo tutti nello stesso pentolone. E ancora: “Meo lassar che i se mazi tra de lori”. Questo era quello che sentivi dire nelle osterie… il pensiero medio era un po’ questo. Oggi il tradizionale antagonismo o sospetto nei confronti del mondo slavo, pur tenuto in piedi da questa funerea cerimonia sulle foibe – il cui ricordo è doveroso, ma ritengo non debba essere usato per dividere ulteriormente ma per unire e riconciliare – penso che oggi, nel triestino medio, alla paura per il pericolo slavo si sia sostituita la paura per il pericolo rappresentato delle migrazioni in generale e Trieste, ahimè, città che ha dato tanto sul piano dell’accoglienza diffusa, si ritrova a essere screditata dai suoi stessi reggitori attuali che considerano quell’esperienza un fallimento. Ecco, questo per me è uno scandalo.

L’accoglienza diffusa, nata in città soprattutto durante il conflitto in Kosovo, è stata un modello poi esportato anche nel resto d’Italia. Sembra che adesso, invece, sia, come ha detto lei, addirittura motivo di vergogna…

Anche qui tutto avviene perché c’è una narrativa che porta alla paura o alla preoccupazione nei confronti del forestiero e quindi alla demonizzazione della carità o della solidarietà. Questa è la narrativa prevalente che si fa strada soprattutto tra i giovani. Quello che mi scandalizza è che non ci sia una contronarrativa, e cioè che delle persone autorevoli, più che tra i politici, tra i letterati, tra gli uomini capaci di sedurre con la loro voce e il loro racconto, una narrazione in senso contrario, capace di riabilitare la solidarietà.

Secondo lei da dove si può ripartire? Da quale punto comune i Balcani – intesi come laboratorio simbolo che può fungere da modello anche per altre zone del mondo – possono ripartire per trovare una connessione e provare a curare le tante ferite che, ancora oggi, sanguinano?

La risposta è pronta. E penso di aver dato un piccolo contributo in questo senso, quando assieme a Riccardo Muti abbiamo costruito il concerto dei tre Presidenti di Italia, Slovena e Croazia che si tenne in Piazza Unità il 10 luglio 2010. Inizialmente il concerto si sarebbe dovuto basare sul ricordo dei morti negli anni del dopoguerra, cioè negli anni delle grandi vendette. Io consigliai a Muti di fare qualcosa, invece, rivolto al futuro: mettere in piedi un’orchestra con giovani provenienti dalle tre repubbliche coinvolte, Italia, Croazia e Slovenia. Così è stato fatto. Ne è nata un’orchestra di 500 elementi, compresi i coristi, una cosa enorme, e suonarono tutti insieme in Piazza Unità. L’emozione nel sentire suonare i tre inni nazionali, fu enorme: una cosa inaudita fino a quel momento. E quella fu la rottura di un argine. Da allora le cose sono migliorate, anche se c’è sempre chi semina zizzania. Quindi, direi che per ripartire sia necessario riaffermare l’importanza della musica, dei simboli, della scrittura.

In conclusione, se, pur nel suo essere anticlericale, potesse immaginare, un possibile ruolo della Chiesa in questo lungo cammino di ri-connessione e riconciliazione, a chi o a cosa penserebbe?

Io guardo lontano. Guardo a San Benedetto, a cui ho dedicato anche un libro sui monasteri benedettini, per il quale sono stato invitato in Vaticano da Papa Francesco. E poi io amo molto la Chiesa delle origini, la Chiesa d’Oriente. Uno dei miei modelli è San Giovanni Crisostomo, che era un uomo d’Oriente, greco di cultura e di lingua, e fu quello che dichiarò senza mezzi termini la sua guerra ai ricchi. A differenza di Maometto, pur nella bellezza del suo Corano. Penso, poi, all’esempio di Papa Francesco. Quando morì, scrissi un articolo per il giornale di Buenos Aires, dove dissi che se Wojtyla era un Papa da guardare, Ratzinger era un Papa da ascoltare, mentre Bergoglio era un Papa da toccare. Infatti, la corrente energetica che mi passò quando lo incontrai e mi prese la mano tra le sue – perché ti dava la mano usandole tutte e due – fu travolgente. Quello fu un incontro che mi cambiò dentro, perché mi disse una frase indimenticabile. Quando gli raccomandai di riposarsi ogni tanto, mi guardò strano e disse: “Paolo, la vita è fatta per essere bruciata, avremo tempo di riposarci dopo”. Infatti, lui incontrò continuamente le persone fino alla vigilia della morte. E io da quell’incontro sento di aver conservato la stessa energia che lui mi ha passato. Se dovessi sintetizzare ciò che sento importante in questo momento, per una possibile riconciliazione, direi soprattutto l’urgenza di testimoniare e di esserci. Esserci molto, essere sempre presenti, incontrare la gente, costruire ponti, evitare frontiere e muri.

A cura di Luisa Pozzar

Foto Wikimedia

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