Ddl sul suicidio assistito: tra aspetti positivi e criticità

Leopoldo Sandonà, bioeticista e direttore dell'Issr di Vicenza, commenta i contenuti del ddl sul "suicidio assistito" in discussione al Senato in questi giorni

Una cosa «ottima», il potenziamento delle cure palliative, e due «criticità»: l’eccessiva burocrazia e il Comitato nazionale per la valutazione clinica. Sono queste le osservazioni che Leopoldo Sandonà solleva sul disegno di legge sul suicidio assistito che tra pochi giorni approderà al Senato per la discussione parlamentare. Filosofo, esperto di bioetica, Leopoldo Sandonà è direttore dell’Istituto superiore di scienze religiose “Arnoldo Onisto” di Vicenza, oltre a far parte dei comitati etici dell’ospedale di Treviso e dell’azienda ospedaliera universitaria di Padova.

Il testo prevede il “potenziamento della rete delle cure palliative che garantisca la copertura efficace e omogenea di tutto il territorio nazionale”. «Un fatto positivo – sottolinea Sandonà – perché sulle cure palliative in Italia abbiamo delle leggi che non sono ancora state applicate del tutto. Il Veneto stesso, che è una delle regioni “d’avanguardia” su questo tema, è molto al di sotto dei livelli minimi previsti dalla legge. Quindi, puntare sulle cure palliative significa dare concretezza a quanto già esiste».

Un elemento critico rispetto al testo Sandonà lo individua nella «eccessiva burocratizzazione della procedura per richiedere la “morte volontaria mediamente assistita”. Una procedura così dettagliata diventa molto vincolante, determina un “binario” che poi tende a escludere altre situazioni. La procedura di controllo andrebbe lasciata ai protocolli terapeutici. Il rischio che intravedo in questa eccessiva “burocratizzazione è quello di escludere la competenza dei curanti. In secondo luogo, più si legifera e più gli spazi di relazione, di comunicazione e di accompagnamento vengono standardizzati, a discapito di storie che sono specifiche, particolari e uniche. Tutta la letteratura su bioetica e biogiuridica va nella direzione di non contrapporre procedura e prossimità., ma di lasciare spazio alla relazione di cura». Una critica, questa, che si lega a quella sul Comitato nazionale per la valutazione clinica. «Credo, al contrario, che dovremmo rimandare ai comitati etici locali, rafforzare gli elementi di prossimità che possono garantire maggiore appropriatezza nelle scelte. Un unico comitato nazionale può risultare burocratico e lontano, andrebbero implementati i comitati etici».

Una posizione che Sandonà sostiene anche sulla base della propria esperienza come membro dei comitati etici di Treviso e Padova. «I comitati etici per la pratica clinica, presenti solo in poche regioni italiane tra cui il Veneto, possono essere interpellati dal personale medico, dai malati o dai loro familiari – spiega -. Esprimono un parere consultivo, non vincolante, su casi anche molto delicati venendone a conoscenza di tutte le sfaccettature. Si riuniscono una volta al mese, nella mia esperienza vengono trattati tra i dieci e i quindici casi all’anno, ovviamente su varie tematiche, non solo sul fine vita. La decisione finale avviene comunque nella relazione terapeutica tra medico e paziente. I membri dei comitati etici esprimono professionalità, competenze e valori diversi, ma hanno tutti una postura dialogica molto forte. Il confronto tra posizioni diverse è faticoso ma non impossibile da realizzare, richiede allenamento ma si riesce. Non ravvedo la “spaccatura” che prevale nella narrazione mediatica su questi temi».

Rispetto al mondo cattolico, «sono d’accordo con le posizioni espresse da monsignor Renzo Pegoraro, nominato da Papa Leone presidente della Pontificia Accademia per la vita – dice Sandonà -. La Chiesa deve promuovere il dialogo e favorire la mediazione senza voler imporre visioni, restrittive o liberalizzanti che siano. Nelle cure palliative è presente una “cultura dell’accompagnamento” che la Chiesa ha fatto propria. La legge che abbiamo in Italia (38/2010, ndr) è molto ambiziosa, non prevede solo l’accompagnamento farmacologico ma fisioterapico, psicologico, spirituale, addirittura l’accompagnamento del nucleo famigliare. È bene ricordare che la Chiesa non è contro l’interruzione delle terapie, anzi, è doverosa laddove non portano a nessun miglioramento o addirittura sortiscono l’effetto opposto. Quello che la Chiesa critica nel suicidio assistito è anticipare in modo diretto e attivo la morte, da parte della persona malata o da una persona esterna (in questo caso si parla di eutanasia). Inoltre il suicido assistito rischia di tradursi in una rinuncia alla cura, in una “non presa in carico” da parte della collettività».

Andrea Frison

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