Cercare la luce, sperare sempre, arrendersi mai

Intervista alla signora Lidia Kobal, nonna e bisnonna, ospite di Casa Ieralla, in occasione della Giornata mondiale degli anziani e dei nonni

Casa Ieralla è un’isola di bellezza e umanità che si fa subito accogliente. Un luogo di residenza in cui tante persone anziane, alcune sole e con problemi di salute più o meno seri, e anche alcuni sacerdoti trascorrono gli anni più maturi della vita, amorevolmente accompagnati dal personale medico, infermieristico e socio-sanitario. Non sembra di entrare in una casa di riposo, però. Sembra piuttosto di mettere piede in una dimora dalle pareti molto ampie, nella quale ciascuno ha un proprio spazio. L’aria è serena, anche se, appena fuori dal portone d’ingresso, le nuvole, un po’ arrabbiate questo pomeriggio, minacciano un acquazzone.

Dopo le necessarie pratiche alla reception e un breve saluto con il direttore, ecco fare capolino da un tavolo dell’ampio soggiorno il volto della signora che mi sta aspettando. È lei, con i suoi 93 anni portati benissimo, a condurmi al primo piano, nella saletta che è stata riservata al nostro colloquio. Una breve titubanza su dove sistemarsi e, accomodate a un tavolino vicino alla finestra, iniziamo a parlare.

«La signora Lidia…»

«Lidia Kobal, con la K». Con molta naturalezza lei inizia a raccontarsi. E le mie domande incalzano qua e là le sue parole.

Com’è stata la sua vita? Vuole raccontarci qualcosa di lei?

La mia vita? Ho perduto il papà a 12 anni, in guerra, era il 1944, e praticamente sono vissuta con la mamma, figlia unica e poi, dopo la guerra, sono stata dichiarata orfana di guerra. In questo modo ho avuto qualche agevolazione con le tasse a scuola e queste cose qua… che c’erano in quel periodo.

Lei è originaria di Trieste?

Sì, sì, sono nata qui. I miei genitori, invece, erano originari del Carso. Venivano da un paesino vicino a San Daniele del Carso. Tutti e due.

Immagino che questo lutto che l’ha colpita in età così giovane l’abbia profondamente segnata…

Purtroppo sì. Soprattutto ho sofferto molto perché mia mamma è rimasta vedova a 37 anni e si è molto attaccata a me ed è stata sempre così anche negli anni successivi. Lei desiderava e vedeva per me tutto il bene del mondo, ma forse era un po’ troppo. Voleva trovarmi addirittura il marito… Quando da più grande mi sono sposata e ho aspettato il primo figlio, da subito ho desiderato che non restasse un figlio unico, perché non è bello. So quanto si soffra la solitudine. L’ho provato con la morte di mio papà: la sua scomparsa prematura mi ha lasciato senza la fortuna di avere fratelli o sorelle. E ho sentito molto la mancanza di un fratello.

Che ricordo conserva di suo papà?

Di lui conservo tanti ricordi perché era molto attaccato a me e io a lui. Era tanto buono, anche severo. All’epoca mi ricordo che i miei genitori desideravano che suonassi il piano. Mi avevano comprato il “pianino” e veniva una professoressa del Conservatorio a casa a darmi lezione. Ricordo che un giorno è venuta e mi ha trovato fuori dalla porta inginocchiata sul sale… mio papà, per punirmi, mi aveva messa sul sale. Quella è stata l’unica volta in cui è stato molto severo e poi era dispiaciuto, era proprio dispiaciuto… ma diceva “ti servirà, ti servirà… Sai, certe volte bisogna essere un po’ più severi”. Tutto il resto sono ricordi bellissimi. Purtroppo, non ho un bel ricordo del giorno in cui l’ho visto per l’ultima volta, quando è stato arrestato.

Suo padre che lavoro faceva?

Lavorava in ospedale, era in cucina, nella dispensa, diciamo… All’Ospedale Maggiore. Durante la guerra noi potevamo andare nel rifugio antiaereo là, proprio perché lui ci lavorava e abitavamo vicino, a pochi metri. Papà aiutava i Partigiani e portava qualche benda a casa in quel periodo, ecco. Diciamo che qualche buon amico… fece la spia.

Cosa successe, quindi?

Vennero i tedeschi a casa per prenderlo. Io ero a casa e mia mamma mi disse “Lidia, guarda che sono venuti, mi hanno chiesto dove è papà e ho detto che era al lavoro e sono andati verso di là. Corri subito a avvisarlo”. Purtroppo non ho fatto in tempo, perché quando arrivai là c’erano due persone con lui nel mezzo che lo portavano via. L’ho seguito per tutta la strada e lui non mi ha visto. Lo portarono fino in piazza Oberdan, perché lì, di fronte alla sede della Telve, quella dei telefoni, c’era la sede della polizia tedesca (la Sipo) e lo portarono là. Lui non si accorse che lo avevo seguito e non mi vide. Quella fu l’ultima volta in cui lo vidi. E non so dov’è sparito. Non lo abbiamo mai saputo.

Non avete mai più avuto sue notizie?

Purtroppo non siamo riusciti a sapere nulla, nonostante le tante ricerche. Mio papà aveva una sorella in Austria, perché durante la prima guerra mondiale la sorella aveva conosciuto un tedesco qui a Trieste e si era sposata ed era andata a vivere in Austria. Abbiamo cercato anche tramite loro, perché mio il cugino, il figlio di questa zia, era un militare tedesco. Dopo l’arresto, i tedeschi avevano preso le chiavi di casa da mio papà e sono venuti lì. Abitavamo al secondo piano, ma quel giorno eravamo al terzo piano da un’altra famiglia. Mia mamma a un certo punto mi ha mandato giù a cercare qualcosa e quando sono scesa ho visto la porta di casa socchiusa, con un blocco in mezzo perché non si chiudesse. Sono corsa su da mia mamma e le ho raccontato quello che avevo visto. Lei, spaventata, corse giù, ma non c’era più nessuno. Forse, se fossi entrata io prima, avrei trovato qualcuno…

E chissà come sarebbe andata a finire…

Infatti… chissà come sarebbe andata… poi i tedeschi tornarono un’altra volta in casa. In quel periodo di guerra spesso era necessario andare in rifugio e in casa avevamo sempre le valigie pronte. Una per la roba da mangiare e una per la roba da vestire. Loro hanno portato via tutto. Hanno rubato tutto. Poi un altra volta è venuto un tedesco in casa e ha visto il pianoforte e ha subito chiesto chi fosse a suonarlo. Risposi che ero io e lui chiese a mia mamma se potevo suonare “Lily Marlene” una volta… mia mamma, con grande coraggio, rispose che non sapevamo nulla su dove fosse papà e, quindi, con quale ardire veniva a chiedere a me, sua figlia, di suonare? È stata molto dura, devo dire la verità… molto dura. Capitò poi che videro una fotografia di mio cugino vestito da militare tedesco: a quel punto, dopo aver saputo da mia mamma che si trattava di suo nipote… si fermarono. Altrimenti non so come sarebbe andata a finire.

E poi?

Poi non abbiamo più saputo nulla. Eppure abbiamo tanto cercato… mia mamma aveva anche una zia che parlava tedesco. E siamio andati a chiedere informazioni proprio ai tedeschi. ll 10 giugno – papà era stato arrestato il 1° giugno del 1944 – c’era stato a Trieste il grande bombardamento. E la zona colpita era proprio quella di fronte al palazzo che oggi è l’Albergo alla Posta. A questa zia avevano riferito che le persone arrestate venivano messe nelle cantine e che papà, preso dallo spavento per la bomba che era appena caduta, gridava “voglio andare da mia moglie e da mia figlia!”. Ma non ci hanno detto altro, perciò non sappiamo se sia finita lì. Abbiamo cercato anche in Risiera, perché alcuni prigionieri venivano portati con i treni in Germania, ma non abbiamo mai più saputo niente. Non si può portare un fiore a papà…

Non è facile…

Non è facile, è stata dura, molto dura perché avevo 12 anni… ma insomma… è passato.

Non ha mai perso la speranza?

No. Ogni anno andavo in Risiera a portare i fiori, poi al cimitero di Sant’Anna c’è un monumento ai caduti e hanno messo lì anche il nome di mio papà. Così portavo i fiori anche là, perché non abbiamo mai saputo dove fosse finito. Questa è stata la guerra. Adesso quando si sentono queste notizie delle guerre, di tutta questa gente martoriata… guardi, è atroce.

Cosa si sentirebbe di dire ai giovani rispetto all’esperienza della guerra?

La guerra non è giusta, assolutamente. Adesso, quando si vedono tutte queste immagini in televisione, questi bambini… non si vede una fine. Viene proprio da chiedersi: ma finirà? Noi, bene o male, abbiamo visto finire la guerra e abbiamo ricominciato… io e mia mamma siamo rimaste senza niente perché ci avevano portato via tutto: in quelle valigie c’era tutto quello che avevamo. Siamo state delle persone buone e ci sono state tante persone che ci hanno aiutato e pian pianino siamo andate avanti. Mia mamma aveva un fratellastro cui era molto attaccata: lui è venuto da noi per studiare e poi ha cominciato a lavorare e ci aiutava. E così sono passati gli anni, io ho finito la scuola ho cominciato a lavorare e sono andata avanti. Ma a vedere quello che sta succedendo oggi, davvero sembra non possa finire mai…

E la vita dove l’ha portata? Che lavoro ha fatto?

Ho fatto l’impiegata. Dopo la maturità ho trovato lavoro come impiegata. Dopo i tedeschi, qui a Trieste arrivarono gli americani e ho lavorato un periodo da loro. Facendo la dattilografa ho imparato a bere il tè con il latte! Quando loro se ne andarono ho cercato un altro lavoro e poi ho cominciato a lavorare nella delegazione jugoslava perché parlo lo sloveno. Anche i miei genitori parlavano lo sloveno. Fino alla seconda media ho fatto le scuole italiane, mentre poi nel 1945 mia mamma ha voluto che andassi alle scuole slovene. In questa delegazione, ogni repubblica aveva il proprio rappresentante e io ne trovai uno che però parlava serbo-croato… quindi mi diedi da fare e, tramite un’amica che veniva da Belgrado e che mi diede un paio di quaderni, ho cominciato a studiare e ho imparato il serbo-croato. Nel corso del tempo un signore con cui questa delegazione era in affari ebbe bisogno di un interprete perché lui parlava solo italiano e, quindi, andai a lavorare per la sua ditta che faceva lastre di vetro a Pančevo, vicino a Belgrado. Con lo stipendio riuscivo a pagare una donna che mi aiutasse con i miei bambini. Mi occupavo di contabilità e devo dire che con questo datore di lavoro ho imparato davvero a lavorare bene: un bilancio doveva quadrare alla lira esatta. Se non era così, bisognava trovare quella lira ad ogni costo. Questa persona mi ha davvero insegnato a lavorare bene.

Ed è contenta del suo percorso?

Ho lavorato tanto, però ho avuto anche tante soddisfazioni. Quando il datore di lavoro è andato via, pian piano la ditta si è ingrandita. Prima ero da sola, poi abbiamo preso un’altra impiegata poi ancora un’altra, poi ci siamo trasferiti… Lui era molto riconoscente anche a me per come avevo lavorato. Tanto che quando si ritirò dal lavoro c’erano due persone in società, ma lui pretese che diventassi socia anch’io e fu lui a regalarmi le quote della società. Non mi fece pagare nulla.

Un gran bel gesto…

Sì, davvero. E gli sono molto riconoscente per questo. Devo dire che sono orgogliosa di quello che ho realizzato. Dopo tanti anni di lavoro e tante soddisfazioni, poi, quando è stato il momento, sono andata in pensione.

Tante soddisfazioni nel lavoro tante soddisfazioni dalla famiglia.. si è sposata, ha avuto due figli. Cosa può raccontarci di questo?

Prima di sposarmi ho tribolato tanto perché mia mamma, gelosa di me, come le dicevo prima, pretendeva che io trovassi il “principe azzurro”, studiato, che avesse un titolo… ma sa come è la vita… quando si trova la persona giusta non contano i titoli. E, infatti, proprio per queste continue interferenze di mia mamma, ci lasciammo tre volte prima di sposarci. In qualche modo mia mamma non ha mai accettato mio marito e per questo non ho un buon ricordo di lei… ma è passato tutto. E ho dei figli meravigliosi, un maschio e una femmina. E poi ho cinque nipoti. Due gemelli di 22 anni – che non si assomigliano per niente – e uno più grande di 27, da parte di mia figlia e due femmine da parte di mio figlio. Le due nipoti vivono una a Roma e l’altra in Austria. Questa seconda è molto brava per le lingue e infatti è stata anche in Australia per un periodo a perfezionare l’inglese perché lì abbiamo dei parenti. Poi ha voluto andare in Austria per perfezionare il tedesco e lì ha trovato un lavoro, ha trovato l’amore e adesso sono bisnonna di un bimbo di un anno. Vivono in Austria, però grazie al cielo ci sono i telefonini, anche se tutti abbiamo brontolato per questi aggeggi… e così facciamo le videochiamate. E io sono abbastanza tecnologica. Sono una a cui piace sempre fare qualcosa di nuovo.

Quindi ha molti interessi?

Sì, sì, io devo fare sempre qualcosa. Faccio la Settimana Enigmistica, leggo, guardo la televisione, seguo le attività proposte qui in casa di riposo… e sennò vado a pulire i fiori in giardino perché devo muovermi finché posso. In passato ho avuto di tutto… ne ho passate di tutti i colori, però adesso sto bene. E quindi finché posso mi muovo e mi tengo attiva.

Nella sua vita, così piena di tante cose, qual è l’emozione più grande che ha vissuto?

L’emozione più grande? I miei nipoti. Ma veramente, perché sono dei tesori. Quando erano piccoli sono stata molto con loro e sono molto attaccati a me. Mi telefonano, mi scrivono, vengono qui a trovarmi. Sono proprio dei bravi ragazzi.

Stiamo vivendo l’anno dei Giubileo dedicato al tema della Speranza e Papa Leone XIV ha scritto un messaggio proprio agli anziani e ai nonni in occasione della Giornata Mondiale a loro dedicata. Cos’è per lei la speranza?

La speranza aiuta a sopportare tante cose. Ma la speranza è anche sperare il meglio per i miei nipoti, per queste generazioni perché oggi vedo che per loro tutto è molto difficile. Spero che per loro ci sia sempre una porta aperta per il futuro, per poter andare avanti. Nella vita bisogna lottare sempre ed essere sempre positivi, anche se davanti non vediamo tanta luce. Perché se non facciamo così e ci abbattiamo già da soli, non si risolve niente. Bisogna sempre cercare la luce. Io l’ho provato su di me: ne ho vissute di tutti i colori, ma sono andata avanti avendo una prospettiva anche quando non avevo più niente. C’è stata una luce che ci ha illuminato e siamo andate avanti.

La signora Lidia, in conclusione – con una dolcezza che ho colto nei suoi occhi color nocciola per tutta la durata dell’intervista – esprime gratitudine per questo incontro: «Grazie, mi ha fatto bene perché ho potuto raccontarmi, ricordando un po’ tutta la mia vita. Difficilmente c’è l’occasione di raccontarsi così, anche per sfogarsi un po’… oggi giorno non c’è più nessuno che ascolta. Ognuno pensa solo a se stesso».

E non rinuncio, allora, a farle un’ultima domanda.

C’è bisogno di essere ascoltati anche quando si è anziani?

C’è tanto bisogno di essere ascoltati. Anche questo può dare speranza. Il fatto di sapere che c’è qualcuno che è disposto ad ascoltare… sa c’è tanta superficialità in giro. Tutti con questi telefoni in mano… serve tornare a parlarsi in famiglia. Sedersi a tavola insieme e parlare. È molto importante.

a cura di Luisa Pozzar

foto di Luisa Pozzar

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