“Giungerà a Roma una piccola rappresentanza del mondo dei cosiddetti ‘influencer’. Perché in realtà tutti ci influenziamo gli uni gli altri. La bellezza dell’incontro in occasione del Giubileo è testimoniare che il cristianesimo non è al di fuori del tempo, ma è nel tempo, e che l’evangelizzazione non esclude alcun luogo, anche i meta-luoghi digitali”. Così Paolo Ruffini , prefetto del Dicastero per la Comunicazione della Santa Sede, presenta al Sir il Giubileo dei missionari digitali e degli influencer cattolici del 28 e 29 luglio.
foto Siciliani-Gennari/SIR
Che appuntamento sarà quello che, per la prima volta nel contesto dell’Anno Santo, vede coinvolta la “categoria” dei missionari digitali e degli influencer cattolici?
Non parlerei di “categoria” perché le categorie dividono ciò che invece ci unisce, che è l’essere – come ha scritto Papa Francesco nell’Evangelii Gaudium – tutti discepoli missionari, ovviamente, nel tempo che ci è dato e che, oggi, è quello della civiltà digitale.
L’aver inserito questi incontri nell’ambito del Giubileo è il segnale della volontà della Chiesa di vivere nel proprio tempo e di porsi la sfida di essere sale e lievito, testimoniando la propria fede anche nel cosiddetto ambiente digitale, che in realtà non è separato dagli altri ma è già il mondo in cui viviamo.
La metafora del “continente digitale” va interpretata, perché è il mondo ad essere anche digitale. Il tema è quello di superare il “digital divide” e
fare in modo che l’ambiente digitale sia sempre più umano
e, per la parte nostra di credenti, sia arricchito dalla testimonianza di chi considera la relazione un dono e non uno strumento di possesso, di dominio o di sovrastazione.
È nostro compito riportare nell’ambiente digitale la bellezza delle relazioni.
La Chiesa con che occhi guarda questo mondo?
Dobbiamo uscire da questo paradigma della divisione. Noi siamo in questo mondo. E anche la Chiesa lo è; il punto è che, nell’esserci,
la Chiesa non deve perdere la propria anima e la bellezza della comunione che ci unisce, che non è meramente una connessione digitale. La comunione che ci unisce è molto diversa dalla pura connessione; è ciò che ci fa membra gli uni degli altri.
La Chiesa vive nel mondo, ma non è del mondo. Torna il tema che hanno posto Papa Leone, Papa Francesco e Papa Benedetto: come si fa a vivere da cristiani l’era digitale? Bisogna accettare la sfida del tempo senza perdere il senso dell’insegnamento evangelico.
La Chiesa può e deve usare gli strumenti digitali con la consapevolezza che il nostro tempo dev’essere riscattato da una visione puramente commerciale, di connessione o di dominio, riportando la bellezza della relazione, della gratuità e della condivisione.
Significa porsi una serie infinita di questioni che però sono le sfide del nostro tempo come altri tempi hanno avuto altre sfide. Oggi c’è una sfida matematica: cosa sono gli algoritmi e come vengono elaborati? C’è un modo cristiano di pensare alla matematica così come c’è un modo cristiano di pensare alla condivisione sui social, alla ricerca della verità o alla misericordia… Nella misura in cui il digitale è polarizzante lo dobbiamo fare diventare qualcosa che unisce; nella misura in cui il digitale ci porta a cercare un protagonismo in cui sono io l’influencer, dobbiamo pensare che noi siamo tutti parte di una comunione che è più forte del protagonismo del singolo perché prevale il protagonismo dello Spirito Santo di cui noi siamo strumenti…
Oggi però la logica prevalente sembra essere quella del “like” e della contrapposizione. Come abitare queste agorà in modo costruttivo?
Lo si può fare senza dichiararlo e senza tanti proclami, perché la testimonianza è fatta di comportamenti. Due anni fa, come Dicastero per la Comunicazione, abbiamo pubblicato il documento “Verso una piena presenza ”, una riflessione pastorale sul coinvolgimento con i social media; la “piena presenza” è digitale ma anche fisica.
Se i social diventano una fuga allora noi dobbiamo farli diventare invece un pezzo della Chiesa in uscita che poi si incontra e agisce nei luoghi e non solo nei meta-luoghi. Se l’oltre che noi cerchiamo è un meta-luogo, allora la nostra diventa una fuga dalla realtà. Il cristiano è obbligato a stare nella realtà e la realtà che noi viviamo è digitale e fisica allo stesso tempo.
Noi dobbiamo riunire questa divisione, altrimenti rischiamo di non vedere più l’interezza della questione.
Il “mondo digitale” in che modo sfida la comunicazione istituzionale e “tradizionale” della Chiesa?
Non si può pensare al digitale come ad un mero delivery, perché non basta aver fatto sui social un post… Così come non bastava anni fa fare un semplice comunicato stampa per essere a posto. La comunicazione della Chiesa non può limitarsi a questo. Cosa cercano di fare le aziende per comunicare? Provano a farti capire un legame, un’appartenenza, una relazione, una fede… La comunicazione è fatta di questo ed è
una comunicazione che è interpersonale. E che oggi passa anche attraverso i social. Dobbiamo spaventarci? No, dobbiamo esserci come cristiani. Ma non possiamo essere solo lì, perché altrimenti sarebbe una fuga.
Bisogna assumere i paradigmi dell’era digitale per com’è; paradigmi che, certo, non tengono conto del digital divide, che tengono troppo in conto lo sfruttamento del clickbait al di là della verità… Conta ancora la verità sul digitale? Dovrebbe ancora contare; e che ci sia qualcuno che la testimonia è importante. Così com’è importante pensare che non tutto è binario: o sei amico o sei nemico… Per il cristiano c’è che si può amare il nemico, no? Anzi, si dovrebbe amare il nemico. Tutto questo ha a che fare con la testimonianza che un ragazzo o un anziano che ha anche la sua vita nell’ecosistema social e digitale può rendere per far capire che tutto questo non è un altrove, ma è qui ed ora.
Secondo Lei c’è la diffusa consapevolezza di essere inseriti in questo mondo in cui vivere non dimenticando o tradendo ciò che si è o prevale ancora un preoccupato distacco?
Secondo me non dev’esserci né resistenza né abdicazione. Siamo di fronte ad un bivio: da una parte c’è chi ha paura, dall’altra parte c’è chi acriticamente pensa che questo sia il compimento dei tempi, la ricetta perfetta per evangelizzare… Non è vera né l’una né l’altra cosa. Questo è un tempo che ha una sua sfida e che va vissuto per quello che è.
Il digitale non è la soluzione dei problemi di una Chiesa che non comunica, perché la Chiesa per comunicare deve essere vera, credibile nel camminare fisicamente nei luoghi del mondo e nel testimoniare anche attraverso una piattaforma social come poteva essere in passato attraverso una telefonata, l’andare in un bar o in un campo di calcio. Il tema è la pienezza della presenza e della fede.
Non va bene né l’arroccarsi né l’assumere qualsiasi paradigma dell’era digitale. Lo scriveva benissimo il card. Carlo Maria Martini ne “Il lembo del mantello”: ogni cosa ha una possibilità di essere utilizzata nel bene e nel male. Gli strumenti di comunicazione – dalla stampa alla radio, dalla televisione ai social – non sono strumenti né solo di bene o solo di male; la questione sta nel come ogni tempo viene vissuto e ogni strumento utilizzato.
Per la Chiesa non si tratta di vincere la resistenza di alcuni o abbandonarsi ad una corrente come suggeriscono altri; no, si tratta di vivere il proprio tempo senza né abdicazione né paura, essendo nel mondo e non del mondo. Impegnandosi per una testimonianza che non è misurata con il numero dei follower o dei click, ma con la verità della condivisione piena.