Restare accanto anche nella sofferenza. Senza giudizi

Intervista al Vescovo Trevisi sulla vicenda di Martina Oppelli, la 50enne triestina, malata di sclerosi multipla da oltre 20 anni, morta in Svizzera

«Non è il momento di esprimere un giudizio su Martina. Per quello che compete a me, è il momento di pregare e di affidare a Dio lei e tutte le altre persone che stanno lottando contro la malattia, tutte le altre persone che soffrono, e non abbandonarle». Così il Vescovo di Trieste, mons. Enrico Trevisi, si esprime sulla vicenda di Martina Oppelli, la cinquantenne triestina, affetta da sclerosi multipla da oltre 20 anni, che giovedì 31 luglio è morta in Svizzera, avendo avuto accesso in quel paese al suicidio medicalmente assistito cui aveva richiesto di poter accedere nella sua città, ma per il quale per tre volte l’Azienda sanitaria universitaria giuliano isontina non aveva ravvisato ci fossero le condizioni.

Eccellenza, come avvicinarsi da cristiani ad una notizia come la morte di Martina Oppelli tramite il suicidio assistito?

«Come vescovi del Triveneto ci eravamo espressi in una lettera. Il tema sta toccando sempre più famiglie, sempre più persone e come cristiani non possiamo evitare i difficili interrogativi che emergono da tali situazioni. In quella lettera abbiamo posto tante domande: che significato ha la vita? Come comprendere il suo mistero? Perché la sofferenza? E ancora: quali sono i diritti da riconoscere e garantire ai malati gravi e terminali? Sono tutte domande che però rimandano a una concezione antropologica».

Quale?

«In quella lettera avevamo detto che l’uomo è l’essere del bisogno. Fin da quando è piccolo con il suo grido, con il suo pianto dice una fragilità che poi va avanti nelle età successive. Per cui le malattie gravi, anche quelle molto gravi come nel caso di Martina, sono l’occasione per tutti per ritornare a porci questi interrogativi fondanti».

Ha mai incontrato o sentito Martina?

«L’ho contattata e le ho parlato alcune volte al telefono. C’era un altro sacerdote che la sentiva con molta più frequenza. Una volta, in un caso fortuito, è stata lei che, essendo uscita per fare una visita medica, per strada mi ha fermato. Preferiva non avere relazioni in casa: per la sua dignità non voleva mostrarsi nelle condizioni di grave disabilità nella quale un po’ alla volta la malattia l’aveva condotta. Questo è un po’ il mio rimpianto: di quando non si riesce a vivere quella vicinanza, quella possibilità di camminare insieme, non per togliere il dolore, ma per portarne insieme il peso. E questo è anche quello che, come comunità cristiana, possiamo fare. Accanto, evidentemente, servono le competenze dei medici, servono le cure palliative di cui parliamo spesso. A questo proposito, Martina aveva molta diffidenza verso le cure palliative perché pensava che distruggessero la sua mente, la sua lucidità. Lei amava la vita, però non trovava più la possibilità, la capacità, la forza, il coraggio di affrontare quello che la condizione della malattia le poneva davanti».

Diceva che in un’occasione vi siete incontrati per strada. Cosa vi siete detti?

«Essendo, appunto, per strada, c’è stata soltanto la possibilità di un saluto. Lei mi ha fermato con il suo grande sorriso, che custodisco nel ricordo. E al telefono non c’è stata la possibilità di una condivisione davvero in profondità. Che è proprio quello che come comunità, come cristiani, come singoli siamo chiamati a fare: essere vicini l’uno all’altro. Poi rimane la questione del dolore, col suo mistero, e di tutti gli interrogativi che esso pone. Come cristiani, il nostro compito è tenere fisso lo sguardo su Gesù, che è anche il Gesù crocifisso, il Gesù che soffre, il Gesù che, quando noi lo guardiamo, ci accompagna dentro il mistero del passaggio da questa vita alla vita eterna».

Nel suo ultimo videomessaggio Martina ha invitato il Parlamento a legiferare sul fine vita. Quali sono, secondo lei, i rischi da evitare nel fare una legge su questo tema?

«Questa legge è stata richiesta già dalla Corte Costituzionale. Il fatto che diverse regioni abbiano tentato di fare o fatto leggi regionali su temi così sensibili ci porta ad avere molte, molte perplessità. I rischi sono quelli di creare scorciatoie per le persone al posto di curarle e accompagnarle nella loro fragilità, dicendo loro: “Beh, guarda, c’è anche questa scorciatoia, quella di farla finita”. Ugualmente ci pongono tanto in discussione le situazioni in cui il dolore diventa così forte che una persona non riesce più a guardare alla propria situazione con un po’ di speranza e fatica a intravvedere nel suo futuro la possibilità di continuare a volersi bene, ad amarsi, che è la risposta cristiana: ovvero che in ogni momento della nostra vita noi siamo destinatari dell’amore. Dico ciò perché ritengo che questo non sia il momento di esprimere un giudizio su Martina. Per quello che compete a me, è il momento di pregare e di affidare a Dio lei e tutte le altre persone che stanno lottando contro la malattia, tutte le altre persone che soffrono, e non abbandonarle. Ora la società civile, ma anche la comunità cristiana, faccia la propria parte per essere vicina a tutte queste persone. Il pericolo, ribadisco, è quello di creare delle scorciatoie per le persone che già vivono una situazione di enorme fragilità, dando loro uno “spintone”, facendole crollare e mettere fine alle proprie sofferenze nel desiderio di non essere un peso per gli altri. Detto questo, di fronte al mistero di una sofferenza tutti ci interroghiamo e siamo chiamati a metterci in ascolto degli altri».

A suo giudizio, quindi, una legge come dovrebbe intervenire su questo aspetto?

«Su questo tema ci sono delle dimensioni etiche, filosofiche, religiose, ed altre giuridiche, legate alla necessità di curare e di non anticipare la morte. In un’alleanza terapeutica certamente rimarrà lo spazio per cui il paziente, la persona che sta soffrendo, con i suoi familiari, gli amici, dovrà interloquire con i medici. E questo sta già avvenendo. Pensiamo alla cura che avviene negli hospice, un luogo nel quale le persone, in un’alleanza terapeutica, vivono con lucidità sapendo che sta arrivando la morte, con uno spazio anche per quella sedazione che va incontro alla richiesta di chi dice: “Sto soffrendo troppo”. Questo non si configura come eutanasia né come suicidio assistito, ma avviene dentro un processo di cura dove anche il malato viene ascoltato. È sufficiente questo? Non lo so. È evidente che per me c’è anche l’appartenenza a una dimensione religiosa – non è così per tutti –, il riferimento ad un Dio che, nella sofferenza, ci accompagna anche a vivere nell’amore gli uni accanto agli altri. Ovviamente questo non significa lavarsi le mani nei confronti di chi si sta affaticando. È una chiamata ad essere accanto, anche dentro l’inquietudine del mistero della sofferenza, che è l’inquietudine della croce, dei tanti popoli oppressi dalla fame, dalle guerre, dalle violenze inaudite, l’inquietudine cristiana che ci porta a non scappare, ma a restare accanto a chi soffre».

a cura di Stefano Damiani

(Intervista pubblicata su La Vita Cattolica, settimanale della Diocesi di Udine)

Foto in evidenza: Luca Tedeschi

 

Martina Oppelli il 4 giugno scorso aveva ricevuto il terzo diniego da parte dell’Azienda sanitaria universitaria giuliano isontina in merito alla verifica delle condizioni per accedere al suicidio medicalmente assistito. Secondo l’Azienda sanitaria – ha riferito l’associazione Luca Coscioni che ha dato la notizia della morte della donna in Svizzera – Oppelli «non era sottoposta ad alcun trattamento di sostegno vitale, nonostante la completa dipendenza dall’assistenza continuativa dei caregiver e da presidi medici». In un videomessaggio registrato poco prima di morire, Opelli ha ricordato il suo appello fatto un anno fa «affinché venisse promulgata e approvata una legge, una legge sensata che regoli il fine vita, che porti a un fine vita dignitoso tutte le persone, malate, anziane. Fate una legge che abbia un senso, una legge che tenga conto di ogni dolore possibile, che ci siano dei limiti, delle verifiche, ma non potete fare attendere due, tre anni prima di prendere una decisione».
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