In seguito ai recenti fatti di cronaca che hanno portato alla luce l’esistenza di un sito – probabilmente uno dei tanti – e di un Gruppo Facebook per soli uomini in cui venivano pubblicati, senza il consenso delle interessate, foto e video di donne anche in situazioni intime, dopo aver pubblicato nei giorni scorsi un’intervista del Sir al professor Adriano Fabris, abbiamo pensato fosse importante sentire il parere di un’esperta (donna) di violenza di genere. Perché di questo si è trattato. Abbiamo quindi rivolto alcune domande alla professoressa Patrizia Romito, già docente di Psicologia all’Università degli Studi di Trieste, che ancora oggi tiene un insegnamento a contratto sulla Violenza di genere presso l’Ateneo giuliano.

Professoressa Romito, come avrà letto sui giornali, nelle scorse settimane sono stati scoperti siti e Gruppi Facebook a contenuto violento nei confronti di un numero enorme di donne le cui immagini o video venivano condivisi senza il loro consenso e violentemente commentati dagli utenti uomini. Sia a livello politico che a livello di società civile e anche di social media ci sono state reazioni molto forti. La prima domanda che volevo farle è questa: noi ci accorgiamo di avere un problema di questo tipo soltanto quando esplode? Non abbiamo la consapevolezza della sua esistenza a prescindere dal momento in cui si scoprono questi fatti?

Le direi: sì e no. Intendo dire che queste diverse forme di molestie e di violenza contro le donne sono molto frequenti e sono anche molto visibili, ma per lo più da chi ha gli “occhiali” per vederle. Pensiamo alle molestie di strada, per esempio, in cui soprattutto le ragazze giovani sono davvero aggredite da parole, da gesti, anche da sguardi, in maniera tale da ridurre la loro libertà. Pensiamo alle molestie nei luoghi di studio, nello sport, nei luoghi di lavoro, che sono quotidiane. Di tanto in tanto, poi, vengono fuori delle notizie sui giornali in cui ci sono dei casi eclatanti: allora tutti le vedono e tutti le riconoscono. Accanto a ciò che esce sui giornali, però, c’è un quotidiano di molestie più o meno gravi che arrivano fino alle violenze vere e proprie che le donne subiscono. Per quanto riguarda la violenza digitale, questo, purtroppo, è un fenomeno ormai molto ampio, che la maggior parte delle ragazze conosce in maniera più o meno intensa e più o meno pesante da sopportare. Ogni tanto esplode qualcosa di particolarmente drammatico e particolarmente inquietante. In questa storia quello che mi è sembrato molto inquietante era il fatto che gli uomini che condividevano, senza il consenso delle donne, delle immagini intime – e lo facevano con gli stilemi della pornografia, perché è necessario dire tutto il contesto – erano i mariti, i fidanzati, i compagni. A volte addirittura i mariti con storie di lunghi matrimoni, con figli, cioè con alle spalle quella che noi immaginiamo come normalità della famiglia. Questa è la cosa particolarmente inquietante: che tutto ciò sia avvenuto in contesti di relazioni di coppia stabili e apparentemente normali. Qualcosa che, secondo me, apre una voragine perché non ci piace pensare che sia così…

Come se rimuovessimo il problema a qualche livello?

Diciamo che finché a fare violenza sulle donne sono degli estranei, riusciamo a sopportare l’idea e immaginarci dei modi per contrastare questo fenomeno. Quando questo avviene all’interno della famiglia, ci fa molta più paura e cerchiamo di non vederlo. Ce ne dimentichiamo abbastanza rapidamente… però se pensiamo anche a quello che è successo in Francia, col caso di Gisèle Pelicot, lì c’era un marito – apparentemente normale e affettuoso, in una famiglia con due figli grandi – che vendeva la moglie, resa incosciente dai farmaci che lui stesso le somministrava, e, di fatto, la prostituiva e lo ha fatto per anni e anni, lucrandoci anche su. Questa modalità di azione, all’interno dei legami familiari, rende molto difficile vedere questa violenza. E, francamente, è difficile dare un’interpretazione di questi fatti che non porti a pensare che alla base ci sia un grande odio nei confronti del genere femminile.

Evidentemente, quindi, la violenza di genere, qui esplosa in un modo particolarmente subdolo, ha delle radici profonde. A suo parere, da dove germogliano questa violenza e questo odio di cui lei ha parlato?

Le radici della nostra società sono delle radici patriarcali. E sono radici potentissime. È difficile, purtroppo, trovare delle società egualitarie, anche se esistono qua e là nel mondo. Storicamente ci sono degli esempi che non è impossibile l’esistenza di società egualitarie dal punto di vista del genere. Però, di fatto, la nostra storia è una storia patriarcale, di dominazione da parte dell’insieme degli uomini sull’insieme delle donne. Noi ci siamo dentro ancora, perché i cambiamenti, che ci sono, sono molto lenti. Ricordiamo che fino al 1982 in Italia esisteva il delitto d’onore, che fino al 1978 il vecchio diritto di famiglia dava all’uomo il ruolo di capofamiglia con la possibilità di impedire o obbligare la donna a fare delle cose. Anche la correzione fisica delle mogli era condonata dai tribunali. Ricordiamo ancora che, fino al 1996, lo stupro era un delitto contro la morale pubblica, non contro la donna. Da un punto di vista storico, tutto questo è molto vicino. D’altra parte il cambiamento c’è, ma è lento e tutta una parte della società maschile in qualche modo si ribella perché scardinare questi canoni vuol dire far perdere loro una posizione di centralità e di dominanza che veniva loro automaticamente per nascita. Molti uomini non lo accettano.

Provando a focalizzarci sulle vittime, cosa significa per una donna vivere questa violenza, anche pubblica, in quanto realizzata su una piazza digitale che, di fatto, non ha confini? Qual è l’impatto sul suo vissuto?

Si tratta di un vissuto devastante perché in realtà non è molto diverso da una violenza fisica. È comunque una violazione della propria intimità, della propria soggettività ed è una violazione che, come lei sottolineava giustamente, durerà per sempre e si moltiplicherà all’infinito. La diffusione di queste immagini ormai non è più arginabile, quindi, queste donne andranno a prendere i bambini a scuola e – incrociando lo sguardo di un uomo che incontrano per strada e magari anche del professore del figlio o di qualche altro genitore – avranno il dubbio e la paura che quest’uomo possa aver visto le loro immagini. Ciò equivale a vivere in uno stato di paura permanente, con un impatto assolutamente devastante sul piano della salute fisica e della salute psicologica. D’altronde ci sono stati anche in Italia non pochi suicidi di donne la cui immagine era stata buttata nel web e avevano finito di vivere: perché dopo la diffusione delle immagini ricevono messaggi, ci sono gli sguardi per strada… Tutto questo poi entra nell’enorme mercato della pornografia e si moltiplica all’infinito. La pornografia ha milioni di utilizzatori e, quindi, milioni di persone che potenzialmente possono arrivare a vedere queste immagini. Quindi è veramente terribile. In alcuni casi la violenza online si rivela quasi più devastante di una violenza che è chiusa in una situazione e dalla quale, anche se non è facilissimo, nel tempo e con il giusto sostegno, si può provare a uscire.

Quindi lei è d’accordo con l’affermazione che “virtuale è reale”?

Virtuale è assolutamente reale. Ormai veramente molte persone vivono nel virtuale, ma è inutile illudersi sul fatto che non sia reale. Certo, non è reale nel senso che non si può toccare fisicamente, ma ha un impatto enorme sulla realtà.

Tra le varie reazioni che ci sono state alla luce di questi episodi, la Ministra Roccella, Ministra per la famiglia, esprimendo una forte condanna rispetto ai fatti accaduti, ha garantito che saranno messe in atto delle iniziative specifiche per il monitoraggio dei social media e dei canali web per agire con strumenti di contrasto. Le chiedo: questo è sicuramente utile, ma… è sufficiente? O serve altro?

La domanda è retorica perché noi sappiamo molto bene che serve altro. Diciamo, però, che un’azione di maggiore controllo – direi anche di tutto il mondo della pornografia, quando è violenta o quando si basa su immagini rubate – è possibile. In media, dietro a tutti questi scambi di messaggi e di immagini ci sono anche degli interessi economici, dei siti (diventati tristemente famosi) e di chi li gestisce, dei giganti del web. Quindi, credo si debba intervenire sui guadagni, impedendoli in qualche modo; tassando i profitti. Limitare la fonte di guadagno di queste pratiche è un modo per contrastarle.

E poi?

Si tratta di fare educazione e prevenzione. È un lavoro enorme che dobbiamo cominciare a fare a partire dalla Scuola dell’Infanzia e continuare per tutti i cicli scolastici. Serve essere sempre molto chiari sui diritti delle donne, sulla loro libertà, sulle pari opportunità: c’è tantissimo lavoro da fare in una società che è molto disuguale e in un contesto di questo tipo è anche più probabile che vengano a galla queste situazioni. Si tratta veramente di un lavoro a lungo respiro, che non abbiamo neanche cominciato, perché è riguardo a tutti questi discorsi sull’educazione sessuale, sull’educazione all’affettività, sull’educazione al rispetto che bisogna cominciare. Bisogna parlare di rispetto, di uguaglianza, di sessualità, quindi, ma bisogna anche parlare di pornografia, perché i ragazzini hanno accesso a materiali pornografici in media verso gli 11 anni. E lei si rende conto di cosa questo significhi. Spesso politici e genitori dicono che non si può parlare di pornografia ai ragazzini, ma i ragazzini intanto la guardano! Noi non vogliamo parlare di questo e loro se la guardano, senza nessun adulto che discuta con loro di cosa significa tutta la violenza che c’è nella pornografia, nel rubare le immagini… C’è da fare un enorme lavoro educativo e di cambiamento sociale e poi, effettivamente, come dice la Ministra Roccella, vanno controllate queste pratiche sul web e vanno tagliate le radici di profitto: io non sono un’esperta di web, ma credo che se si riesce a intervenire sul profitto sia anche più facile controllare i contenuti violenti.

Concretamente cosa servirebbe, secondo lei?

Bisogna fare tante cose diverse, bisogna educare bambini e bambine, bisogna educare gli insegnanti che non sempre sono preparati, bisogna intervenire sul web, bisogna intervenire sulla sessualizzazione delle bambine – altro tema attuale – e focalizzarsi anche sulla parte di umanità comune tra maschi e femmine che andrebbe riconosciuta e valorizzata.

Forse però abbiamo anche dei genitori che non hanno gli strumenti o non si sentono in grado di affrontare determinate tematiche con i propri figli… servirebbe forse anche un lavoro con le famiglie?

Certo, sicuramente. Quando si pensano e si fanno interventi con i bambini e le bambine o gli adolescenti a scuola, dovrebbero sempre essere interventi multilivello: con i ragazzi e le ragazze, con gli insegnanti e con i genitori, perché è inutile lavorare con i bambini e le bambine se poi dai genitori o dagli insegnanti arriva loro un messaggio completamente opposto. Naturalmente sono tutte cose impegnative che richiedono un impegno nel tempo: non basta andare due volte o una volta in una classe, raccontare, parlare… certo, meglio che niente. Però, si potrebbe fare meglio. Soprattutto mettere questi interventi a sistema.

Per concludere, le chiederei ancora una cosa. Ferma restando la libertà delle donne di esporsi e di vivere la propria vita, compresa la gestione della propria immagine, ecc. esiste forse un modo per aiutarle a proteggersi dalla violenza, anche online?

Naturalmente è una questione spinosa perché si scivola facilmente nel moralismo. Per evitare di farlo – anche astenendosi dal giudicare comportamenti che, tra l’altro, sono tipici di una generazione e anche per questo per le persone più mature come me è meglio essere prudenti nel commentarli – quello che si può fare sicuramente è ricordare a ragazzi e ragazze – perché anche i maschi possono subire questo genere di situazioni anche se molto, molto meno frequentemente – che queste immagini condivise in rete poi sono incontrollabili. Ricordare, in particolare alle ragazze, che, se mandano un’immagine intima al loro fidanzato, non possono essere sicure che questa resti nel cellulare del loro fidanzato. Direi che si tratta di invitare a un comportamento di prudenza: un livello di base sul quale dovremmo insistere con le persone giovani, ma anche meno giovani. Dopodiché, mi sento di dire che tutto questo bisogno di mostrarsi, di fotografarsi – senza per forza arrivare alle immagini intime – i selfie, ecc. sono indicazioni di un narcisismo sociale che riguarda donne e uomini e che, secondo me, è abbastanza problematico. Ma questa è indubbiamente una questione più ampia e generale.

A cura di Luisa Pozzar

Nella foto in evidenza: la professoressa Patrizia Romito