In concomitanza con la Giornata Internazionale del turismo che si celebra il 27 settembre, è ospite di Trieste Next il prof. Harald Pechlaner, docente di Turismo presso l’Università Cattolica di Eichstätt-Ingolstadt (Germania). Lo abbiamo intervistato.

Professor Pechlaner, la riflessione accademica sul turismo è poco nota. Lei la lega al concetto di “cura”. In che senso?

Sono felice di essere stato invitato a Trieste Next, dove si parla di turismo, con attenzione sia ai problemi che alle prospettive. Senza dubbio il turismo a livello globale, ma anche locale, sta cambiando molto. Nei giorni d’oggi parliamo di over-tourism e di overcrowding (sovraffollamento) da una parte; dall’altra abbiamo una fortissima democratizzazione del turismo nei paesi industrializzati. Oggi il turismo è parte integrante dello stile di vita. Ciò ha portato a dei problemi: il turismo ha raggiunto una dimensione industriale ed è stato standardizzato. È diventato un fattore economico di grande peso. Abbiamo assistito poi al crollo dei costi del turismo e abbiamo capito che non si poteva andare avanti così. Abbiamo, infatti, perso ciò che in inglese si dice “people business” (le esigenze delle persone). Abbiamo dimenticato l’essenza del turismo: l’incontro umano. Non è solo economia, ma scambio culturale e personale. In questo turismo di massa è andato perso proprio questo momento di incontro.

Turismo e cura: due concetti che sembrano lontani, ma che lei propone di unire. In che modo?

Dobbiamo riscoprire un turismo che metta al centro la cura delle persone e del mondo che abitiamo. Questo significa tornare a un turismo fondato sul rispetto, sulla responsabilità etica e su una visione globale. Oggi affrontiamo grandi sfide: cambiamento climatico, crisi economica, disuguaglianze tra Nord e Sud del mondo, e un’industrializzazione del turismo che ha spesso escluso le persone più fragili, come quelle con disabilità. In questo contesto abbiamo perso il senso della risonanza, della qualità della vita. Eppure, è proprio la qualità della vita degli abitanti di un luogo che rende possibile un turismo sostenibile — non il contrario. Negli ultimi decenni, invece, si è favorito un turismo incentrato solo sul profitto, trascurando il bene comune. È tempo di invertire la rotta, creando esperienze che migliorano la vita dei residenti e, di conseguenza, quella dei turisti.

Quindi serve ristabilire un equilibrio tra il turista e il territorio. È qui che entrano in gioco ospitalità e accoglienza?

Esattamente. Sono parole che usiamo spesso ma che dobbiamo riqualificare. Col turismo di massa sono state un po’ banalizzate. È arrivato il momento di rivalutarle e ripensarle: cosa significa davvero accogliere? Cosa vuol dire essere ospitali? Non basta offrire un servizio: si tratta di ricostruire un rapporto umano autentico tra chi arriva e chi abita un territorio. Solo così si può creare un circolo virtuoso tra visitatore e comunità locale.

Rimettere al centro la persona, quindi, è essenziale anche per la dimensione turistica?

Assolutamente. Oggi si parla di turismo lento: e non è un caso. Negli ultimi anni il turismo si è accelerato, spinto dalla logica del profitto e della crescita continua. Ma questa velocità fa perdere quella che chiamo “risonanza”, quella capacità di entrare davvero in relazione con i luoghi, la natura, con le persone. Parliamo tanto di tecnologia, ma rischiamo di dimenticare che è la natura il vero spazio di incontro e di sostenibilità. Quindi un turismo lento è una idea che vale la pena di sviluppare.

A proposito di ospitalità, viene in mente la Regola di San Benedetto. Possiamo dire che esistevano “turisti” prima del turismo?

Sì, assolutamente. Il turismo moderno nasce con la democratizzazione del viaggio nei paesi industrializzati e post-industrializzati, ma le radici del viaggiare sono molto più antiche. I primi “turisti” erano i pellegrini, che si muovevano per motivi religiosi. Fin dall’inizio, quindi, la mobilità è stata una componente fondamentale dell’esperienza umana. La Regola di San Benedetto è un esempio prezioso: accoglieva il viandante, ma stabiliva anche regole reciproche di rispetto. L’ospite era benvenuto, ma doveva inserirsi armoniosamente nelle regole del convento. Ecco perché parlare di ospitalità non può limitarsi alla sola “cura dell’ospite”: significa anche riconoscere la necessità di regole condivise.

Serve allora un’etica del turista, per evitare che i luoghi vengano sfruttati. È una questione di rispetto?

Esattamente. Oggi siamo arrivati al punto in cui è necessario educare il turista: invitarlo a rispettare le regole, a conoscere i valori culturali, sociali e ambientali del territorio che visita. Noi chiamiamo questo approccio “coscienza delle destinazioni”: un atteggiamento etico che deve essere condiviso non solo dai turisti, ma anche da operatori turistici, istituzioni, politica. L’accoglienza, infatti, non può essere neutra: riflette sempre una visione del mondo, una certa idea di sostenibilità. Il turismo, in fondo, è solo una finestra dello sviluppo di una società. Ecco perché è importante allargare lo sguardo: il modo in cui facciamo turismo racconta molto di come viviamo e di che mondo vogliamo costruire.

Qualche volta si sentono giudizi malevoli sul turismo, anche da parte del mondo religioso e anche da parte di qualche sacerdote. Possiamo dire che il viaggiare è parte della nostra natura umana? E in che modo il turismo riflette questo bisogno antropologico?

Si, certo: siamo nomadi e questo si esprime in varie forme di mobilità e di turismo. Ma pensiamo al pellegrinaggio: la religiosità era un aspetto importante. Oggi, in una società sempre più secolarizzata, parliamo meno di religione e più di spiritualità. Però non possiamo non vedere che ci sono sempre più persone che si muovono per motivi personali, per riflettere e iniziare una strada, un percorso spirituale. Siamo nomadi, ma siamo sempre più gente che vuol riflettere: siamo dei cercatori di senso e di spiritualità. E questo funziona addirittura in un turismo di massa: la gente cerca qualcosa, anche in un semplice paesaggio di montagna, ad esempio, un lago, ecc. e i paesaggi possono essere addirittura spirituali.

Secondo lei, la chiesa o le chiese su questo sono al passo con i tempi? Abbiamo sviluppato una sensibilità adeguata?

Purtroppo noto una certa superficialità nell’approccio. Dedicarsi al turismo non è solo creare punti d’attrazione. Bisogna invece ritornare alla questione pastorale, all’essere umano, all’umanità: una “human destination”, una destinazione umana nella quale la chiesa si dedica non solo al membro della comunità, ma anche al visitatore occasionale nello stesso modo. Secondo me lì c’è ancora un passaggio da fare. Questo farebbe molto bene anche al turismo che perderebbe la superficialità, dedicandosi molto di più ad aspetti che riguardano la spiritualità. Dobbiamo quindi riconoscere nel turismo anche la profondità del creare qualcosa che è serio e che è credibile.

Un esempio virtuoso di questo a livello anche ecclesiale? Lei ha da segnalarci qualcosa? Esistono per esempio a livello internazionale delle diocesi in Austria o Germania: si pensa a percorsi particolari anche di spiritualità. E le persone sono guidate e supportate con delle idee, con la Bibbia, con passi del Vangelo. È un po’ di più che il solo aprire le porte e dire di guardare la bellezza di una chiesa, di un edificio. Questo non basta. Sappiamo che tanta gente non va più in chiesa e quindi dobbiamo andare a forme nuove di pastorale, che aprono nuovi mondi anche per gente che non ha più trovato un accesso.

Può consigliarci un libro per approfondire questi temi?

Sì, certo. Ho contribuito a un libro pubblicato da Aracne Editore dal titolo “Destination Greenitaly. Modelli di governance turistica dalle Alpi al Mediterraneo”. Il volume nasce da un lavoro che abbiamo fatto a Roma qualche anno fa. Affronta diversi aspetti della sostenibilità turistica, mettendo in luce anche l’importanza degli aspetti etici, del turismo responsabile ed etico.

A cura di don Lorenzo Magarelli

Foto in evidenza: tratta dal sito di TriesteNext