Il triduo. Giorni di dolore e di gioia per respirare la speranza

In che modo celebrare la Pasqua di morte e risurrezione illumina la nostra fede

Il corso della storia esprime alla Chiesa delle esigenze che connotano di un accento particolare la celebrazione del cuore della nostra fede. La Chiesa, nella situazione attuale del mondo, sente l’esigenza di cogliere la sfumatura della speranza in questo giubileo, e coglie l’esigenza di dare espressione alla gioia giubilare. L’evento di morte e risurrezione, pur rimanendo unico e immutabile, viene colto con uno spirito sempre differente a motivo dello sfondo creato dall’attualità del nostro tempo, il tempo che abitiamo e in cui la Chiesa celebra la salvezza.

Dolore, gioia e speranza

La vicenda irripetibile di Gesù Cristo condensa in sé tutta l’estensione delle vicende umane. Era veramente Dio e veramente uomo. Tra l’estremo dolore (dell’abbandono, della violenza fisica, della tortura, della morte, della visione dell’orrore della propria madre ai piedi del patibolo) e l’estrema gioia (dell’esultanza gloriosa, della vita immortale, della riabilitazione alla vita e alle relazioni grazie alla vita divina) sta tutta l’emotività dell’uomo. Tra il dolore e la gioia, noi cristiani troviamo la speranza. Il dono della speranza, infatti, non si riduce ad una semplicistica attesa supina e inerme. La speranza cristiana consiste nell’affrontare la vita (le gioie e il dolore, la salute e la malattia, il bene e il male) al modo di Gesù Cristo. Questo è il vero fulcro della speranza: affrontare ogni cosa al modo di Cristo. La chiave fondamentale per dare concretezza alla speranza è la fiducia totale nell’amore del Padre. L’affidabilità del Padre come termine certo e incrollabile è la forza che permette a Gesù di affrontare gli insulti, le frustate, la corona di spine, i chiodi, la sete ardente, il respiro asfissiato, la morte soffocante. Solo la relazione profondissima con il Padre spinge Gesù in croce a dire: «Nelle tue mani consegno il mio spirito». Quella profondità di relazione è l’intensità della speranza che ha dato al Signore la forza per mettere un passo avanti all’altro nella salita del Calvario. Questa speranza è la perla nascosta nel giubileo che stiamo attraversando.

La speranza in tre giorni

La speranza nella provvidenza del Padre era stata anticipata, attraverso una forma rituale, da Cristo stesso. Durante la cena pasquale, Gesù attesta che quella stessa salvezza del popolo (risparmiato dalla minaccia dall’angelo e del mar Rosso) è la salvezza che lui stesso vivrà. Il passaggio dell’angelo che non toglie la vita ai primogeniti ebrei e il passaggio del mare che non toglie la vita al popolo rivissuti in quel rito ora sono il passaggio di Gesù da questo mondo al Padre, un passaggio che non toglie la vita per sempre, un passaggio che la ridona per l’eternità. Tra la cena e la risurrezione c’è un evento irripetibile e un piccolo tratto ripetibile: è il rito della cena. Non avverrà più la morte del Signore, ma avverrà molte volte la memoria di quella speranza creduta da Cristo e che tutti noi assimiliamo e vogliamo credere al modo suo.

Sono tre giorni secondo il computo del tempo antico: al tramonto del sole la giornata cede il passo alla data successiva. Quello che noi consideriamo “mezzanotte” per compiere il cambio di data, nel mondo antico consisteva con il tramonto. Per questo motivo il triduo si dipana in quattro giorni (da giovedì a domenica) benché continui ad essere una celebrazione di tre giorni. La ripartizione quindi consiste dalla notte, ossia dopo il tramonto, fino al tramonto del giorno successivo. Il primo giorno, dal giovedì dopo il tramonto, ossia la cena come anticipazione della morte, l’arresto, il processo e l’uccisione di Gesù. Il secondo giorno va dalla notte del venerdì fino al tramonto del sabato, quello della deposizione e del silenzio della Chiesa. Il terzo giorno è quello della veglia, dalla notte del sabato alla luce della domenica. Il triduo, quindi, è stato generato secondo il calcolo di tre giorni secondo il sistema antico, ora ricollocato nel calendario moderno in quattro giorni.

La speranza celebrata

Il triduo avviene ogni anno. Eppure, non è sufficiente conoscere l’esito della Pasqua per poter credere. Nessuno crede semplicemente perché sa che la risurrezione è avvenuta. Alla sera del giorno di Pasqua la Chiesa proclama il vangelo che narra l’incontro del Risorto con i discepoli di Emmaus. «La sera di quel giorno», il giorno stesso della risurrezione, quando Cristo si avvicina ai due viandanti e domanda loro di che si stesse discutendo, i due riportano tutti i fatti avvenuti, anche della loro conoscenza della risurrezione. I due discepoli sono consapevoli della risurrezione, ma non riconoscono Gesù fino a quando non spezza il pane con loro. Tutti in Italia sanno cosa sia la risurrezione, ma questo non significa che tutti credano in Gesù. Celebrare il triduo non è quindi una sorta di scuola che fa apprendere ai cristiani che Gesù è risorto: lo sappiamo. Dobbiamo invece riviverlo. La celebrazione non ha il compito di istruire, ma di far sperimentare. Come in tutte le relazioni importanti, a fronte di apprendere nozioni nuove su qualcuno è più importante sentire la presenza e la comunione con qualcuno. La liturgia non ci insegna che Gesù è andato in croce, ma ci fa vivere la sua morte in croce; non ci informa della risurrezione, ma riversa in noi la vita del Risorto. La liturgia si manifesta più secondo la relazione con Dio che secondo un’informazione su Dio. Con questo animo la nostra fiducia nel Padre potrà divenire la nostra più ferma speranza. Respirando capacità di Gesù di affrontare ogni cosa con la forza di questa speranza la Chiesa avrà il fiato per camminare in questo tempo. La fiducia profonda nella misericordia del Padre, vissuta ancora una volta nella risurrezione, sarà la propulsione del nostro grazie che fluisce come la vera gioia del giubileo.

don Sebastiano Bertin
Istituto di Liturgia Pastorale “S. Giustina” – Padova

Gerusalemme, Palme 2023 (Foto Custodia Terra Santa-sir)

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