Pubblichiamo il ricordo personale del Direttore, don Lorenzo Magarelli, su Papa Francesco
Il Santo Padre Francesco ci ha lasciato, è entrato nell’eternità del Suo Signore: la sua Pasqua nella Sua Pasqua. Già dai giorni del suo ricovero al Gemelli ho iniziato a ripensare agli anni di questo pontificato e ho ripreso alcuni appunti che avevo annotato nei primi cento giorni del suo ministero petrino. Cento giorni erano sicuramente poco per capire, ma abbastanza per intuire e mi sembra di poter dire che siano stati anticipatori di ciò che sarebbe stato dopo. Provo a condividere, quindi, alcuni pensieri.
In primo luogo, non possiamo parlare di Francesco senza pensare a Benedetto. La rinuncia di Papa Ratzinger è lo sfondo su cui si collocano le parole e i gesti di Papa Bergoglio: il vecchio Papa tedesco, con un gesto che solo un fine teologo e pensatore poteva compiere, ci ha lasciato una lezione di geniale e coraggiosa umiltà: accorgendosi che il complicato scenario odierno richiedeva di cedere il passo a un vescovo di Roma più giovane e di stile diverso, Papa Benedetto ha affidato la Chiesa alla sua guida, il Pastore dei pastori. E questo accadde proprio nell’anno della fede.
Vengo, ora, al primo giorno di Pontificato. Come è accaduto a tanti, abbiamo amato il Papa prima di vederlo: quel nome, Francesco, annunciato dal Protodiacono, mi colpì profondamente. E anche il modo con cui si rivolse alla sua Diocesi, come un fratello maggiore, vestito con la semplice sottana bianca. Ma anche vederlo col capo chino, nel gesto di ricevere la benedizione di Dio che egli aveva chiesto al suo popolo: una grande emozione. Seguirono, quindi, i primi giorni ricolmi di gesti inconsueti: quel suo spostarsi in pullman, pagare la stanza della Casa del Clero, portare i fiori alla Madonna, stringere le mani alla gente dopo la Messa fuori dalla chiesa di sant’Anna in Vaticano. In sintesi: né più né meno di quanto fa un buon parroco con la sua gente.
In molti hanno detto fin da subito che Papa Francesco era semplice e alla mano. Ed è vero. Semplicità, però, non è sinonimo di sciatteria, tanto meno di populismo. Quanto diceva e faceva è stata pura teologia cattolica, espressa – questo sì – con un linguaggio semplice e accattivante, non costruito, non predisposto da un team di comunicatori. Il Papa si stava comportando come era solito fare quand’era vescovo di Buenos Aires: semplice, profondo, schietto. A cento giorni dalla sua elezione, infatti, ci stavamo accorgendo che “non le mandava a dire”, che non banalizzava il Vangelo, anzi! Ad esempio, disse a noi preti che dovevamo avere addosso l’odore delle pecore, ossia stare con la gente. Allo stesso tempo diceva che non dovevamo pettinare le pecore, ma dovevamo aiutarle a crescere e farle correre verso il pastore che è Gesù. Alle suore diceva di essere madri e di fuggire la mondanità spirituale. Ai giovani diceva di andare controcorrente. Alla società rimproverava di non fare molto contro le povertà.
Con una prontezza di riflessi che solo un gesuita formato alla vecchia scuola della Compagnia poteva avere, Papa Francesco è riuscito a togliersi di dosso in un sol colpo secoli di cerimoniali sacrali che tenevano il Pontefice distante dalla gente: retaggi di un passato che già i suoi predecessori avevano iniziato ad archiviare. Pensiamo, ad esempio, a Giovanni Paolo I che tolse la tiara e a Giovanni Paolo II che mise in soffitta la sedia gestatoria. D’altra parte, perché ci meravigliavamo che il Servo dei servi di Dio si comportasse così?
Di certo, molto del suo fare libero venne dalla sua origine: che l’Europa sia il museo del Cristianesimo – come dice qualche autore – lo si vede anche dal modo un po’ ingessato che i cristiani del vecchio continente hanno nel vivere la loro fede. Altrove non è così. La straordinaria libertà di Papa Francesco veniva anche dai lunghi anni di ministero vissuti in una zona complessa e povera del mondo: un’esperienza pastorale che gli fece porre gesti e dire parole che arrivavano al cuore di tutti.
Vengo ad un piccolo aneddoto personale. Qualche giorno dopo la sua elezione mi arrivò una telefonata: era un signore che, in lacrime, mi diceva quanto grande fosse la sua gioia nell’ascoltare il Papa. E mentre questa persona mi apriva il suo cuore mi chiedevo: ma se un cristiano – lo so, non un cristiano qualsiasi, ma il Papa – riesce a rendere tutti così gioiosi, fiduciosi, pieni di speranza, quanto cambierebbe il mondo se un miliardo e trecento milioni di cattolici facessero, almeno un pochino, come lui?
Papa Francesco rendeva presente il Dio vicino: e lo faceva sine glossa (senza interpretazioni, senza commenti), come san Francesco d’Assisi. Se ci pensiamo un attimo, sta proprio qui il centro del Vangelo: Dio non se ne sta tranquillo nel suo Cielo, circondato dalle schiere degli angeli. Tanto meno Dio trascorre il suo tempo scagliando fulmini e saette, in preda ad una mania di grandezza che, come risultato, produce l’ateismo dell’umanità. Il Figlio di Dio si incarna per opera dello Spirito, portando a noi il volto del Padre proprio lì dove l’uomo vive. Stessa identica cosa accadeva con Papa Francesco e con la gente – che dimentica facilmente la lezione evangelica, quella lezione che con il suo stile pacato ha insegnato per ben otto anni Papa Benedetto – che va così riscoprendo che il cristiano non se ne sta chiuso nel suo palazzo dorato, nella sua parrocchia, nel suo “club”, ma esce e si sporca le mani così come fa Dio. Il Papa andò più volte in carcere e lavò i piedi ai giovani carcerati: è Vangelo sine glossa, è Vangelo che si incide nella memoria della nostra carne. È fuoco vivo che brucia e ci chiede personalmente di guardare in faccia lo stile di Dio e di schierarci con lui.
Ancora un aneddoto personale di quei primi cento giorni di pontificato. In occasione della giornata dei cresimandi, portai a Roma un gruppo di centoventi ragazzi e catechisti. Fu un’esperienza molto bella. A concelebrare col Papa eravamo circa duecentocinquanta sacerdoti. Alla fine della celebrazione il Papa si tolse i paramenti liturgici (e lo fece, come un prete normale, davanti a tutti, mentre la gente lo attendeva). Salutò, quindi, i vescovi presenti. E poi guardò noi. E cosa fece? Venne verso i preti, con affetto di padre, senza la paura di venir schiacciato da quei figli, forse un po’ adolescenti, armati di telefonini e cappellini. Pochi istanti prima, in piazza san Pietro, avevo visto la gente ricevere la Comunione piangendo, mentre leggevo su alcuni striscioni con su scritto: “Francesco, uno di noi”. Ora ne sperimentavo la verità come prete: eravamo sacerdoti qualsiasi, di campagna o di città, parroci o cappellani, frati o diocesani. Nessuno ci aveva presentato, nessun protocollo, nessuno conosceva i nostri nomi. Solo volti di preti, preti volti al Signore e alla gente loro affidata, pastori che nessun libro di storia ricorderà, discepoli del Signore con un grande servizio da compiere nella Chiesa. E il Papa, anche stavolta, lasciando il protocollo, si avvicinò a noi. Ricordo una grande commozione: il Vescovo di Roma, il primo vescovo della Cristianità, Pietro stesso faceva questo con i piccoli del Vangelo. Immagino gli sia costato fatica e forse lo avrà sorpreso vedere una reazione così infantile. In senso spirituale, intendo: quella fresca e gioiosa che Papa Francesco ha trasmesso dentro e fuori dalla Chiesa. Porto ancora nel cuore questa giornata. Riconsegnai quei ragazzi entusiasti alle loro famiglie e alle loro parrocchie, sognando che fossero tornati diversi, che il seme di quei giorni e dell’incontro col Papa avesse alimentato in loro la luce della fede che spinge ad andare controcorrente, come disse il Papa nella sua omelia.
Ricordo che una volta il mio vecchio parroco mi disse che il Signore dona alla sua Chiesa un Papa migliore dell’altro, in un crescendo rossiniano. Guardando a Papa Francesco, credo che il mio parroco avesse proprio ragione. E questa speranza resta viva, anche pensando al futuro Papa: perché la guida sicura della Chiesa è il Signore.
don Lorenzo Magarelli
Direttore de Il Domenicale di San Giusto
Foto SIR