La vocazione è un evento, ma è anche una rete di persone

Intervista a don Valerio Muschi, parroco della Parrocchia Madonna del Mare: quest'anno il suo 25° anniversario di ordinazione sacerdotale: "La mia vocazione esiste perché mi sono sentito amato"

Sulla scia della 62esima Giornata mondiale di preghiera per le Vocazioni che ha per tema “in qualunque genere di vita, non si vive senza queste tre propensioni dell’anima: credere, sperare, amare” tratto dalla Bolla di indizione del Giubileo Spes non confundit, prosegue la serie di interviste a sacerdoti diocesani, religiose e religiosi che operano in Diocesi e che, quest’anno, celebrano degli anniversari importanti di ordinazione sacerdotale o di professione religiosa.

 

Incontriamo oggi don Valerio Muschi, triestino, 49 anni, ordinato sacerdote il 20 maggio del 2000 per l’imposizione delle mani del Vescovo monsignor Eugenio Ravignani. È attualmente parroco della Parrocchia Madonna del Mare nonché Delegato diocesano per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso.
Quest’anno anche lui festeggia il 25° anniversario della sua ordinazione sacerdotale.

Partiamo dalla sua vocazione. È arrivata in un momento o in luogo preciso? Che ricordi ha?

Io, in effetti, ho memoria di un momento preciso in cui ho saputo con sicurezza che la mia vocazione, la mia chiamata sarebbe stata quella del prete. Era il 21 agosto del 1993, intorno alle 18.30. Eravamo a Lungis, in provincia di Udine, nella chiesetta di San Giovanni Decollato e stavo partecipando alla Messa durante un campo del Movimento Studenti di Azione Cattolica, dove mi trovavo soprattutto per le amicizie. Avevo quasi 18 anni. Nei giorni precedenti ci fu un momento di preghiera in cui io per la prima volta sentii che attraverso la Bibbia Dio parlava con me e, qualche giorno dopo, ebbi una grossa delusione a livello di amicizie, proprio con le persone per le quali mi ero iscritto al campo. Quella sera, a quella messa sentii che Dio aveva voluto cercarmi. Nessuno dei miei amici mi aveva cercato, ma lui sì. Questo è stato il punto culminante di un percorso più lungo che comprende gli anni precedenti e quelli successivi.

E poi?

Poi il mio percorso è continuato, perché ero approdato in parrocchia da poco e avevo conosciuto alcuni di quelli che sono tuttora i miei migliori amici. Ero arrivato soprattutto perché ero un organista, studiavo lo strumento, e quindi è stata l’occasione attraverso la quale ho incontrato un sacco di gente, tanti miei amici e anche tanti preti.
Il primo che incontrai fu don Riccardo Donà. Poi incontrai monsignor Radole, musicista, che venne a vedere chi suonava l’organo e mi chiese chi fosse il mio maestro. Poi ancora monsignor Fonda, don Luigi Lenardon, don Carlo Gamberoni. Poi incontrai don Fabio Ritossa, che divenne per lunghi anni mio padre spirituale e mi accompagnò anche negli anni del Seminario. Ma voglio ricordare anche don Mario Vatta, don Giorgio Petrarcheni e anche le monache benedettine di San Cipriano che allora erano sotto San Giusto. Ancora oggi spesso frequento il monastero di Poffabro, dove ci sono le monache che incontrai da ragazzo e che tuttora sono un riferimento spirituale. Insomma, sono tante le figure che mi hanno accompagnato.

Un cammino collettivo, quindi…

La vocazione è un evento, ma è anche una rete di persone. Uno dei miei momenti preferiti era ed è la messa domenicale e il dopo-messa. La messa domenicale è il luogo in cui si celebra, ma che è anche la vita concreta della famiglia di Dio. Il dopo-messa è il momento di fraternità, di amicizia, di scambio e tutto questo è diventato come la mia famiglia. Poi ricordo bene il giorno dell’ordinazione, quando insieme a Alex (Cogliati, ndr) vedevo questa chiesa piena di gente… tanti li conoscevo, tanti altri no ed erano venuti dando il segno di questa grande famiglia di cui fai parte e che vuoi servire come prete, però sai di farne parte prima ancora di esserne al servizio. Parafrasando Sant’Agostino “con voi cristiano, per voi prete”.

Arriviamo al percorso del seminario, cosa ricorda di quegli anni?

Il seminario per me era una sorta di luogo idilliaco, luogo dove si sta con gli altri, nel nome di Dio, si sta con i coetanei che hanno la stessa chiamata. E si è seguiti.
Ricordo l’esperienza degli studi, specialmente di Sacra Scrittura che contribuivano ad aprirmi la mente. Ricordo che, dopo una lezione tornai in camera e dissi “ok, non ho capito niente… Dio non esiste… ho perso completamente il filo”. Insomma, uno schock. Perché a volte noi ci portiamo dentro delle verità affettive che ci sembrano assolute e invece, studiando la Bibbia, la teologia in particolare, tante di queste certezze si sgretolano e ne rimane il nocciolo, il diamante al centro. La verità, invece, ha sempre mille sfaccettature. E si prende coscienza della verità di una cosa non perché noi pensavamo fosse vera, ma perché ci abbiamo lavorato su e l’abbiamo fatta nostra con la fede. E la fede presuppone il dubbio.
Ecco io, io sono grato al seminario perché mi ha insegnato ad affrontare i dubbi della fede e della vita.

E del suo servizio nelle varie parrocchie cosa è stato più importante per lei?

Sicuramente il confronto con la pastorale in parrocchia. A Muggia, per esempio, ho incontrato gli scout, i chierichetti… poi a Santa Maria Maddalena Inferiore, a Coloncovez, don Mario Vatta mi fece conoscere la comunità San Martino del Campo dove incontrai ragazzi con problemi di droga, con problemi psichici e problemi abitativi; incontrai delle persone meravigliose, sia tra gli accolti, sia tra i volontari, gli operatori: con alcuni di loro mi frequento ancora oggi. Questi incontri mi hanno aperto gli occhi sulla realtà che non è quella ovattata dei benestanti, ma è quella di chi è più disarmato e mi hanno aiutato moltissimo nel cercare di capire le persone, per incontrarle senza schemi, senza paura. Così ho cercato di accompagnare, sostenere, aiutare, creare io stesso delle reti di supporto, per integrare, per un accompagnamento personale: tutte queste esperienze mi hanno aiutato a crescere.

Poi arriva il giorno dell’ordinazione, il 20 maggio 2000. Quale ricordo conserva?

Di quel giorno io ricordo una full immersion nella chiesa, nella comunità cristiana, di cui anche il vescovo è parte integrante. Con Alex (Cogliati, ndr) volevamo sentirci parte della chiesa cristiana triestina che parla due lingue principalmente, l’italiano e lo sloveno. Quindi c’era anche il coro sloveno insieme al coro di tanti amici: entrambi avevamo fatto esperienza con la comunità slovena e chiedemmo che ci fossero anche loro a cantare quel giorno.

Io ero abbastanza tranquillo, mi sentivo sicuro, perché stavo camminando su un terreno che sentivo solido, una fede fatta chiesa, insomma: era come se fossi nato per quel giorno lì e per gli anni che poi sono seguiti. Mi ricordo bene il Vangelo di quel quel giorno, era la quinta domenica di Pasqua: “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga”. Poi ricordo che subito dopo il termine della celebrazione il vescovo Ravignani ci diede immediatamente la facoltà di confessare, che non è scontata. E proprio alla fine della Messa ricevetti in dono da una signora una stola viola che tuttora uso quando celebro la confessione. È come se mi fosse stato consegnato in quel il giorno sia il sacramento dell’Eucaristia che quello della Confessione. Tutto nello stesso momento. Qualcosa che fu determinante per gli anni successivi.

Sono tre i verbi scelti per la Giornata Mondiale di preghiera per le Vocazioni. Ce n’è uno che le è più affine?

Allora, credere, amare e sperare sono le tre virtù cardinali, teologali che sono, speranza e carità. Non possono essere scisse l’una dall’altra.
Riguardo all’esperienza vocazionale posso testimoniare che è vero che di tutto è più importante la carità: infatti io mi sono sentito amato. La mia vocazione esiste perché mi sono sentito amato. E ho cercato di inserirmi in questo dinamismo della carità. Fare la mia parte perché questa carità non sia solo una relazione interpersonale che comunque è l’origine di tutto, ma anche una dimensione sociale, familiare. Io tuttora cerco di facilitare, è un verbo importante per la mia vita, facilitare le relazioni, la carità tra le persone, la carità che diventa parrocchia. Da quasi dieci anni sono Delegato per il dialogo ecumenico e in questo ambito la carità ha un ruolo davvero speciale: abbiamo fedi diverse, simili magari con i cristiani, però la carità ci unisce. Quindi diventa un po’ anche il mio luogo di impegno, in questo senso.

Ecco, questa vocazione nella vocazione. Quando le fu chiesto di assumere questo incarico, lo sentì come qualcosa che era nelle sue corde? Qualcosa che era già sua?

Sì, sì, assolutamente.
Io ero sempre rimasto molto incuriosito sia dall’ebraismo sia dall’ebraicità di Gesù. Da tutto quello che riguarda la radice, l’albero su cui la Chiesa è innestata… la radice ebraica ho sempre desiderato cercare di comprenderla, così come anche di comprendere l’ebraismo come spiritualità, come approccio alla vita. Io sono convinto che recuperare il dialogo con gli ebrei, scoprire le radici ebraiche, anche nella fede cristiana, sia molto importante.
Conobbi a suo tempo la preghiera di Taizé. E la promuovo tutt’ora in ambito ecumenico. C’è sete tra le persone di una preghiera semplice specifica per gli adulti nella quale hanno grande spazio il silenzio, la presenza delle icone, le candele… e la lettura del Vangelo in tutte le lingue rappresentate nei vari incontri.

Quanto è importante, quindi, la preghiera personale, ma anche la preghiera della comunità che la sostiene?

Io prego perché ne ho bisogno, come ho bisogno di respirare.
Nel Padre Nostro si dice “Dacci oggi il nostro pane quotidiano”… ecco, Dio risponde suscitando vocazioni per dare quel pane a coloro che lo aspettano e che ne hanno bisogno. Dio provvede sempre. Io incontro tante persone che pregano molto più di me e ringrazio Dio per loro perché pregano e sostengono gli altri.

Se si guarda indietro, a 25 anni dal suo “Sì”, può dire che ne è valsa la pena?

La vocazione è cosa di Dio e a noi sta solo rispondere. Il mio “sì” è stato un “sì” di fronte a un “s”ì molto più grande di me, che è quello di Dio. Sono contento di essere prete e sento che Dio con la vocazione mi ha fatto dono di me stesso e mi ha fatto capire chi ero, chi sono e chi sarò. Da 3 anni sono anche Terziario Francescano, ma ho San Francesco nel cuore fin da quando ero piccolo visto che ho ricevuto il Battesimo, la Prima Comunione e la Cresima nella chiesa dei Frati minori conventuali di via Giulia. E, sempre nel solco di San Francesco, il Vescovo mi ha affidato la pastorale per la Laudato Si’.

E la musica?

Io sono sempre un organista e un musicista. Per me la musica e il ministero vanno avanti insieme.

 

A cura di Luisa Pozzar

 

 

Grazie per aver letto questo articolo. Se vuoi restare aggiornato ti invitiamo a iscriverti al nostro canale Whatsapp cliccando qui
14min115
WhatsApp Image 2025-05-17 at 08.11.33
WhatsApp Image 2025-05-17 at 08.11.33 (1)
ALEX COGLIATI


Chi siamo

Portale di informazione online della Diocesi di Trieste

Iscr. al Registro della Stampa del Tribunale di Trieste
n.4/2022-3500/2022 V.G. dd.19.10.2022

Diocesi di Trieste iscritta al ROC nr. 39777


CONTATTI