Con il consenso dell’autore, pubblichiamo il testo “Papà dei poveri”, tratto dal volume “Sa wada, sa wada, fada” (edizioni Lint, 2004) in ricordo di monsignor Lorenzo Bellomi, vescovo di Trieste dal 1977 al 1996.
Era il 3 di agosto. Con Paolo Rumiz ci eravamo inerpicati fin su, nel “rifugio” dove il Vescovo Lorenzo riposava in attesa di ritornare a Trieste, consapevole che il male avrebbe vinto.Resisteva al senso di inadeguatezza che la malattia aveva insinuato nelle sue giornate, «un padre malato rimane pur sempre un padre» avevo azzardato nella speranza di “recuperarlo” al nostro affetto grande e certo.
Dopo l’incontro avrei voluto fare qualcosa.
In cima alla scala di legno mi stava salutando, gli occhi accesi di gioia. «Saluta tutti, ciao. Ci rivediamo alla fine del mese».
Avrei voluto risalire i gradini ed abbracciarlo forte forte, quasi ridonargli vigore e salute, e supplicarlo di non andarsene, di non lasciarci, di non arrendersi al male.
La fragilità, la povertà del momento me lo facevano apparire grande, indispensabile. Come indispensabile è un padre nella storia di ciascuno di noi.
Più che un padre era stato un papà. Di tanti figli, di tanti poveri figli.
Papà dei poveri. Ecco, così mi piace ricordarlo. In questa forma lo sento vicino.
Era fondamentalmente povero. Il linguaggio, i gesti quotidiani, la spontaneità del sorriso, l’immediatezza nell’accogliere erano lo specchio della sua persona. Era proprio così, come appariva, questo padre tanto preoccupato per i figli e tanto legato a loro in un difficile abbraccio, perché i figli possono anche essere scontrosi pur alla presenza di un padre trepidante.
Sì, certamente, era stato uomo di cultura, di dottrina, anche maestro – perché no? – per i tanti giovani che aveva incontrato ed amato.
Ma soprattutto papà dei poveri. Ed è forse per questo che la povertà della malattia era stata da lui dapprima guardata con perplessità, poi riconosciuta, ed infine cercata ed abbracciata con lo slancio dell’uomo di fede, di colui che crede, prima che con la coerenza della mente, con la tenerezza del cuore.
«Trovo nella sofferenza una forza insospettata di comunicare per vie finora sconosciute…».
Amava i poveri, i deboli. Con discrezione, però. L’amore suo era coinvolgente, mai invadente.
Mi guarderò bene dall’elencare le opere di carità, i segni dell’amore posti in atto da Lorenzo Bellomi.
Dimenticherei certamente i più importanti: quelli, cioè, nascosti, quotidiani, cercati…
Quelli che giorno dopo giorno formeranno lo stile di una vita sempre più vicina al Vangelo di Gesù di Nazareth.
Ma voglio dire della passione per il povero che animava in maniera bruciante la vita del Vescovo Lorenzo.
Si dice che fosse facile al pianto: lo era in particolare quando gli si parlava dei poveri, dei bambini, dei soli, dei disperati. Quel pianto frequente non poteva essere l’espressione di un’infanzia evangelica vissuta al battito del cuore di Dio?
Ecco la luce di quegli occhi, in cima alla scala: erano gli occhi della fede e la luce era la luce di chi, finalmente povero di tutto, può abbandonarsi a Dio come un bimbo nelle braccia forti e sicure del padre.
Io credo che “essere con i poveri” sia diventato uno stile di vita per mons. Bellomi: uno stile che trasversalmente dava senso a tutte le sue azioni, i suoi desideri, i suoi difetti, le sue resistenze.
«Chi ci separerà dall’amore di Cristo?…» In questa maniera l’Apostolo invitava la prima comunità di Roma a meditare sulle proprie ed altrui povertà.
Io non so perché mi ritorni in mente il Vescovo Lorenzo, quando rileggo Romani 8.
Forse perché sentendosi perdonato, egli riusciva a capire.
Non è facile capire il povero. Forse è più facile commiserarlo. O, ancora, più facile attribuirgli le responsabilità della sua sfortuna.
Per capire il povero è necessario buttare giù i recinti che ci separano da lui. Non dire più «io e lui», «noi e loro», i poveri.
Forse il segreto di Lorenzo, Vescovo povero, stava proprio nell’abbattere ogni giorno recinti e steccati per correre incontro al misero. Aveva capito il fratello indigente. Aveva capito che doveva, da apostolo di Cristo, vivere la povertà profeticamente, anticipando per il suo gregge, nella testimonianza semplice e vissuta, una porzione di Regno di Dio.
Avere compassione per i poveri…Non si trattava solo di commozione passeggera.
Quante volte mons. Bellomi, provato, deluso, stanco avrà ritrovato nuovo slancio nell’incontro col povero?
Sì, proprio così, perché chi ama il povero trova la forza a ricominciare proprio in questi appuntamenti.
L’appuntamento col fratello è un sicuro appuntamento col Figlio di Dio.
Sì, proprio con Lui, il povero, lo spogliato di tutto, che entra nella gloria della Resurrezione accompagnato da tre diseredati: un disperato suicida, un manigoldo vero e un manigoldo “debole” che sicuramente ha avuto parole di intercessione per il compagno di sventura.
Come mai il racconto evangelico pone accanto alla morte di Gesù la morte di questi poveri? E che poveri!…
Molte volte mi sorprendo a pensare che per entrare nel Regno non è importante “meritare”, ma aver bisogno.
Perché Marco invita a farsi piccoli come bambini per entrare nel Regno?
I bambini non possono “meritare” ma certamente hanno bisogno: di venir imboccati, abbracciati, coccolati, amati. E non è così anche per noi?
Per entrare nel Regno abbiamo bisogno di abbandonarci a Lui, il Padre, di fidarci e di affidarci.
Ma in questo modo ammettiamo di essere tutti poveri, in qualche maniera.
C’è la povertà imposta, maledetta e ce n’è una che viene scelta per amore del Regno.
È la povertà del Vescovo Lorenzo, povero tra i poveri e, per questo, papà dei poveri.
Ricordo in più occasioni di avergli parlato, con il cuore in mano, di situazioni, di zone, di persone povere della nostra città e di averlo visto scuotere la testa, nascondere il pianto mentre pronunciava «che possiamo fare?… che possiamo fare?…». Ed eccolo allora incoraggiare, promuovere, immaginare. Per quei poveri, per i poveri, i suoi, i nostri poveri.
Lorenzo era povero e si lasciò spogliare dalla volontà di Dio, nella malattia.La povertà è difficile, la malattia è difficile. La volontà di Dio è difficile.
Lorenzo era povero, ma la spoliazione era necessaria in vista della libertà interiore, in vista di quell’infanzia necessaria per il raggiungimento del Regno.
Le vie impensate a cui alludeva mons. Bellomi e che sono quelle della sofferenza, stavano compiendo il miracolo della Provvidenza. La stagione della semina si era ormai conclusa, ora iniziava il momento del nascondimento, del “marcire” in terra, preludio ad una natura pronta a dare i suoi frutti.
Le vie impensate dall’uomo erano i percorsi voluti da Dio.
L’uomo si era abbandonato al suo Papà, che aveva provveduto a condurlo attraverso un percorso in salita di spoliazione e di povertà, in vista di una più grande libertà interiore.
Tutto ciò sarebbe stato possibile se la consuetudine con il povero non avesse costituito scelta e stile di vita per Lorenzo Bellomi?
Il povero faceva parte integrante del suo esistere.
La spiegazione di quel sorriso e di quegli occhi pieni di luce, là in cima alla scala, stava proprio in questo: ormai nulla più lo poteva separare dal suo Signore. La povertà era totale e ciò rendeva, all’interno di un corpo finito, l’anima libera e ormai in attesa del ricongiungimento con il Padre.
«Saluta tutti, ciao. Ci rivediamo…» Non più alla fine del mese, ma in un momento, a noi sconosciuto, dell’Eternità.
Che vuol dire per sempre.
Mario Vatta