L’introduzione della Legge 38/2010 sancisce il diritto alle cure palliative in Italia; tuttavia, persiste ancora un gap significativo tra bisogni dei pazienti e risposte fornite dal sistema sanitario. Secondo gli ultimi dati del ministero della Salute, solo il 33% dei malati che ne ha bisogno ha accesso alle cure palliative, con forti disparità regionali. Trentino, Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna le regioni più virtuose, mentre il Sud fatica a garantire assistenza adeguata, soprattutto pediatrica. Il Ministero punta a raggiungere il 90% di copertura entro il 2028, ma l’obiettivo è ancora lontano. Eppure, le cure palliative, che non sono da riservarsi unicamente al fine vita, offrono accompagnamento, dignità e sollievo dalla sofferenza fisica, psicologica e spirituale nelle malattie croniche, degenerative o terminali. Alla vigilia della Giornata nazionale che ricorre l’11 novembre, memoria liturgica di San Martino, Carla Dotti, direttore sanitario della Fondazione Sacra Famiglia di Cesano Boscone (Milano) racconta il modello dell’hospice presente all’interno della struttura, le sfide della rete territoriale, il ruolo dell’équipe e l’importanza della formazione.
Un viaggio nel cuore della cura, dove anche il dolore ha bisogno di parole giuste.
Dottoressa Dotti, qual è lo stato attuale delle cure palliative in Italia?
Le cure palliative sono presenti e riconosciute, ma la copertura territoriale è ancora disomogenea. In Lombardia, dopo un avvio difficile, si è passati ad una percezione positiva, quasi di “fierezza”, per la presenza degli hospice. Tuttavia, alcune aree del Paese restano sotto-servite. Secondo i dati Agenas 2022, nel nostro Paese ci sono circa 307 hospice, di cui 73 in Lombardia.
Come è cambiata la percezione sociale della morte e del fine vita?
La diffusione degli hospice ha contribuito a superare la “scotomizzazione” della morte, cioè la tendenza culturale a rimuoverla dalla coscienza collettiva. Oggi c’è maggiore accettazione e valorizzazione del servizio, anche grazie al lavoro di sensibilizzazione.
Le cure palliative, però, sono per lo più ancora associate solo all’oncologia…
Sì, purtroppo molti cittadini le collegano esclusivamente alla terapia del dolore per pazienti oncologici in fase terminale. In realtà, sono fondamentali anche per malattie croniche, demenze e per i grandi anziani.
È importante ampliare la consapevolezza pubblica e professionale su questo punto perché l’ultimo tratto della vita è ancora vita, e va vissuto con serenità e dignità.
Le cure palliative non significano arrendersi: in molti casi, dopo l’assistenza, il paziente può anche tornare a casa.
Quando è il momento giusto per accedere all’hospice?
Troppo spesso l’ingresso avviene quando l’ultimo miglio è quasi concluso. Sarebbe auspicabile un accesso più tempestivo, almeno 3-4 settimane prima, per costruire un vero percorso di accompagnamento e migliorare la qualità della vita.
Qual è la differenza tra pazienti in hospice e quelli assistiti a domicilio?
Il paziente in hospice è generalmente in fase terminale, mentre chi è a casa può avere prospettive di vita più lunghe. I bisogni e le richieste cambiano; in ogni caso l’approccio deve essere personalizzato.
Come si affrontano le diverse dimensioni della sofferenza?
L’hospice non si occupa solo del dolore fisico, ma anche di quello spirituale ed esistenziale. La figura dell’assistente spirituale è prevista dalla normativa, anche se la formazione è ancora in fase di sviluppo.
L’obiettivo è rendere l’ultimo miglio un miglio di vita.
Quanto è difficile parlare di malattia inguaribile, fine vita, morte con pazienti e famiglie?
Questo tipo di comunicazione, delicatissima, non si improvvisa; richiede competenze specifiche. L’équipe è centrale per garantire un accompagnamento di qualità e per sostenere gli operatori, che affrontano carichi emotivi importanti fino al rischio burn-out L’ambiente hospice può essere emotivamente impegnativo, come le terapie intensive. Lavorare in équipe aiuta a condividere il peso e a proteggere il benessere degli operatori, condizione necessaria per offrire una buona assistenza.
Nel luglio 2021 è stata istituita la prima cattedra universitaria italiana di Cure palliative presso l’Università Statale di Milano, in collaborazione con l’Istituto nazionale dei tumori. Qual è l’importanza della formazione?
Non ci si improvvisa palliativisti. Servono percorsi universitari e specialistici. Oltre a questa cattedra, sono state istituite in diversi atenei scuole di specializzazione in Medicina e cure palliative. Si tratta di percorsi post-laurea dedicati alla formazione di medici palliativisti. Anche assistenti spirituali, volontari e personale devono essere adeguatamente formati.
Come influisce l’ambiente sull’esperienza in hospice?
Il nostro ha 9 posti letto, una dimensione contenuta per evitare un’impronta ospedaliera e dare invece la sensazione di una casa accogliente. Ho visto hospice progettati come luoghi armoniosi, simili ad agriturismi, ma ne ho visti altri, purtroppo, ricavati da aree dismesse. Ovviamente non basta l’architettura; contano anche le persone incontrate:
ambiente e qualità delle relazioni sono parte integrante della cura.
Invece, per quanto riguarda l’assistenza domiciliare?
La struttura ha avviato le cure palliative domiciliari, ma incontra difficoltà nel reclutamento, soprattutto di infermieri. La formazione specifica è essenziale per garantire continuità e qualità dell’assistenza.
Il percorso continua dopo la morte del paziente?
Sì, l’hospice offre supporto al lutto per i familiari. Molti volontari sono ex familiari di pazienti, segno dell’apprezzamento ricevuto. Il volontariato, se ben formato, porta “vita” e sostiene la comunità di cura.
Dottoressa, un’ultima domanda: nel vostro hospice avete mai ricevuto richieste di aiuto a morire?
No. Nella mia ormai lunga esperienza in strutture cattoliche e “laiche”, non ho mai ricevuto questo tipo di richieste.
Con cure palliative adeguate, le richieste di suicidio assistito diminuiscono sensibilmente.
Giovanna Pasqualin Traversa (SIR)
Foto: AFP/SIR



