Madonna della Salute: storia, miracolo, celebrazione

Il 21 novembre, una tradizione capace di ricordare a tutti che la convivenza nelle differenze è possibile e che affidarsi, con fede, è una strada percorribile

Al cuore di ogni celebrazione c’è sempre una storia. Il racconto di qualcosa di così importante da meritare di essere condiviso e tramandato. Perché, lo sappiamo bene, non tutti i giorni sono uguali. Aspettiamo alcuni appuntamenti, attendiamo alcune occasioni speciali, con tutto il loro portato di ricordi o di novità. Possono essere feste laiche o religiose o qualcosa che rimanda alle proprie vicende famigliari. Sono comunque occasioni che attendiamo con trepidazione, gioia e talvolta anche struggimento e nostalgia. E poi ci sono le giornate in cui accadono cose inaspettate. Momenti in cui siamo attraversati dall’imprevisto che cambia e trasforma.

Spesso le celebrazioni, che oggi sono diventate prassi, all’inizio avevano invece proprio questa caratteristica: essere capaci di aprire uno squarcio nuovo sulla consuetudine. Miracoli che, pian piano, hanno finito col perdere la propria forza per trasformarsi in un’abitudine o in una tradizione. Storie che si sono perse nella notte dei tempi e di cui non sappiamo più ricostruire la scintilla iniziale. Eppure, continuiamo a crederci, continuiamo ad aspettare quelle giornate perché nel tempo hanno acquistato, di diritto, un ruolo nella memoria collettiva e personale. Sono diventate parte integrante della cultura di un territorio.

Nell’avvicinarsi della festa cittadina della Madonna della Salute mi sono domandata da dove arrivasse questa tradizione. Quale fosse stata la vicenda iniziale che ha dato vita a questa devozione popolare che da sempre ricordo come un accadimento importante anche nella mia famiglia che da quella Messa riportava a casa, ogni anno, qualche medaglietta da portare appesa al collo. Sono andata a ricercare le vicende storiche di una statua ritrovata, abbandonata, poi venerata e poi sistemata in un palazzone nuovo ai piedi della chiesa dei Gesuiti. Ricordo bene quando ci passavo davanti con mia mamma che mi faceva entrare per accendere una candela che era una preghiera, dentro una cappellina a cui non attribuivo alcuna bellezza. E ricordo lo sguardo della Madonna, l’altra, quella che vediamo all’altare maggiore della stessa chiesa, nel santino appeso a casa di mia nonna, il giorno in cui il male stava facendo il suo corso.

La mia storia dentro la storia di migliaia di persone che, nel tempo, hanno creduto, pregato, sperato e hanno trovato negli occhi di quella donna, Maria madre di Gesù, sia essa statua o dipinto, uno sguardo di com-passione e di com-prensione. Un ponte tra il divino e l’umano che non ci fa sentire soli; per noi anche una sorella che ci sta accanto nella sua piena umanità, pur nel mezzo delle traversie dell’esistenza.

Una devozione popolare con una storia secolare che da noi è stata capace di sdoppiarsi: la statua e il dipinto, infatti, convivono pacificamente in una città che del doppio ha fatto la sua migliore qualità. Entrambe belle, nelle loro evidenti differenze, ma ugualmente unite dal medesimo spirito creativo e umanista che sta alla base di ogni devozione e religiosità popolare che fa vivere il Vangelo e lo Spirito Santo nella vita incarnata dei luoghi e delle persone. Una celebrazione, una tradizione, una festa che racconta di noi, che dice chi siamo, in cosa speriamo e crediamo. Un’occasione per accendere una luce che rischiari con la gioia della fede anche le nostre piccole o grandi difficoltà della vita, riponendo nelle mani grandi di Maria noi stessi e le nostre diverse comunità.

Erica Mastrociani

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