don Daniele Scorrano nuovo parroco di Nostra Signora della Provvidenza e di Sion

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Intervista a don Daniele Scorrano che questo sabato entra ufficialmente come nuovo parroco a Nostra Signora della Provvidenza e di Sion.

Il 28 settembre 2024 alle ore 19.00 don Daniele Scorrano farà il suo ingresso come parroco nella Parrocchia di Nostra Signora della Provvidenza e di Sion.

Don Daniele, già rettore della Rettoria di Nostra Signora della Provvidenza in via Besenghi, insegnante di teologia presso il seminario Redemptoris Mater e assistente ecclesiastico diocesano di Comunione e Liberazione, appartiene alla Fraternità sacerdotale dei missionari di San Carlo Borromeo. È proprio presso la Rettoria che don Daniele ci accoglie e ci concede quest’intervista, con la quale gli chiediamo di farsi conoscere.

Don Daniele, ci vuoi parlare di te, delle tue origini e del percorso che ti ha portato fino a Trieste?

Sono nato a Gallipoli, nel Salento – la terra di don Tonino Bello – il 7 ottobre 1978, terzo di quattro figli, due maschi e due femmine. Sono cresciuto in Parrocchia, frequentando l’Azione Cattolica che a un certo punto sono stato chiamato a servire anche come vicepresidente diocesano del settore Giovani. Ho frequentato il Liceo Classico e poi ho studiato filosofia a Lecce e ad Eichstätt, in Germania.

Attraverso il mio parroco ho poi incontrato gli amici e la proposta di CL che mi ha fatto innamorare di Gesù e della sua Chiesa in un modo nuovo e affasciante.

Dopo un’esperienza prima in teatro e poi, come giornalista, in una televisione locale, ho lavorato per breve tempo in ambito accademico col professore con cui avevo fatto la tesi e infine ho iniziato a insegnare filosofia e storia al Liceo Malpighi di Bologna.

Durante gli intensi anni bolognesi è maturata la mia vocazione. O meglio: mi sono finalmente arreso al lungo e paziente corteggiamento di Dio. L’ipotesi – che di lì a poco avrei iniziato a verificare con un sacerdote – di poter offrire la mia vita, il mio cuore, le mie mani, la mia bocca, le mie gambe perché Gesù potesse essere conosciuto e amato, perché io potessi conoscerlo e amarlo, perché Egli potesse usarmi per continuare a raggiungere gli uomini e le donne di oggi come faceva con tanti amici che avevo incontrato, riempiva la mia vita di una letizia nuova.

Sono entrato in seminario che avevo quasi ventotto anni.

C’è stata qualche figura per te particolarmente significativa nell’orientamento verso la tua scelta di vita?

Accanto al fascino di tanti amici che ho vi-sto donare la propria vita con gioia, certamente il grande Giovanni Paolo II. Le sue parole e il suo luminoso esempio di vita sacerdotale mi hanno accompagnato nei miei primi 27 anni di vita.

Assieme a lui anche san Francesco e santa Teresina. Vicino al mio paese, su due colline a poca distanza l’una dall’altra, si ergono due realtà che in modi e in tempi diversi hanno segnato gli anni della mia prima giovinezza e in un certo senso tutta la mia vita: l’Oasi francescana e il Carmelo di Santa Teresa. Fin da bambino la figura di San Francesco d’Assisi – resa per me attraente da frate Antonio, un giovane frate che aveva una straordinaria capacità di parlare a noi giovanissimi tenendoci incollati alla sedia – è sempre stata una provocazione destabilizzante. La semplicità della sua espressione, l’immediatezza del suo esempio, la fraternità e, al di sopra di tutto, la sua radicalità nel vivere il Vangelo mi attraevano e nello stesso tempo mi incutevano timore. In fondo credevo che non ci fosse un altro modo di andare dietro a Gesù e la mia vita cristiana mi sembrava troppo piena di compromessi. Ho sempre avvertito un profondo desiderio di vivere la mia vita assieme ad altri fratelli…

Santa Teresa del Bambin Gesù, che proprio nel Carmelo di Gallipoli ha compiuto il miracolo fondamentale per il suo processo di canonizzazione, mi ha insegnato a non aver paura dei desideri grandi che avvertivo nel cuore e nello stesso tempo ad abbandonarmi come un bambino tra le braccia di Dio.

Qual è stata la tua esperienza di vita sacerdotale fino ad oggi?

Durante questi primi quasi 12 anni di sacerdozio ho coadiuvato come segretario il vescovo di Reggio Emilia-Guastalla e nello stesso tempo ho lavorato con i giovani e le giovani coppie nell’accompagnamento vocazionale in due percorsi diocesani, il Pozzo di Giacobbe e le Giare di Cana. Un grande regalo: mi ha introdotto nella sacralità e unicità del rapporto che Dio stabilisce con le anime. È un terreno sacro quello su cui ho avuto il privilegio di posare i piedi. E poi tanti volti, tanti incontri… Poter servire l’incontro tra la sete che Gesù ha degli uomini e la sete, spesso inconsapevole, che gli uomini hanno di Lui è per me il cuore della vocazione sacerdotale. Dammi da bere… Queste parole, che Gesù ha detto alla Samaritana al pozzo di Giacobbe e ha ripetuto dalla croce, sono risuonate spesso dentro di me in questi anni. Parole che feriscono e commuovono, che scavano un solco molto profondo in chi fa loro spazio. «Anco grida c’ha sete», scriveva santa Caterina. Ancora oggi Gesù e il suo Corpo, sparso per il mondo intero, vivono in questa arsura. Noi siamo al crocevia dove queste due seti si incontrano. Vorrei tanto che la mia vita fosse spesa a servizio di questo incontro. Nell’edificazione di luoghi in cui Lui possa riposare, come sul bordo del pozzo di Sichem. E dove gli uomini possano a loro volta dissetarsi alle sorgenti che zampillano dal cuore del Sal-vatore. È bello essere sacerdote, poter partecipare alla missione di Gesù, imparare che il cielo non è un luogo lontano, ma è la Terra vista con gli occhi di Dio.

Tu hai fatto anche un’esperienza di missione all’estero. Ce ne vuoi parlare?

Ho visitato molte missioni della mia Fraternità sparse nel mondo e poi sono stato inviato dai miei superiori a St. Paul, negli Stati Uniti, per aprire una nuova casa della Fraternità assieme ad altri due confratelli. Un’esperienza fondamentale, non priva di difficoltà ma entusiasmante. A dispetto di quanto uno potrebbe immaginare, c’è una grande povertà in America, che si esprime soprattutto nella solitudine e nell’individualismo. Non a caso i suicidi tra i giovanissimi sono sempre più frequenti… Ho lavorato contemporaneamente come vice-parroco e come assistente nel Campus Ministry di una scuola. E infine, durante il Covid, nell’assistenza agli ammalati. Mi hanno insegnato molto quegli anni e sarebbe lungo ora ripercorrerli. In estrema sintesi posso dire che sono stati una scuola di umiltà.

In seguito, sei arrivato a Trieste. Come mai?

Me lo hanno proposto i miei superiori dopo la conclusione della nostra esperienza nella diocesi di Reggio Emilia, dove nell’ultimo anno avevo servito come vice-parroco in 6 parrocchie di Sassuolo continuando a seguire anche le coppie delle Giare di Cana. Penso che la decisione sia in qualche modo connessa al desiderio di non lasciare solo don Federico dopo la morte di don Beniamino e, insieme a questo, il tentativo di dare continuità a tutto ciò che lui aveva iniziato.

Non sapevo nulla di Trieste. Era una delle poche città dove non avevo mai messo piede. Terra di confine, ricca di storia ma anche di ferite. Si avverte subito il fascino di quella «scontrosa grazia» di cui parlava Umberto Saba. Crocevia di popoli, tradizioni, fedi e lingue diversi, ponte tra l’Oriente e l’Occidente. Una terra di missione e un laboratorio privilegiato di perdono e riconciliazione.

Assieme al mio confratello don Federico, con cui vivo e da cui ho tanto da imparare, a Trieste ho trovato, attorno alla Rettoria, una bella e vivace comunità.

Tra i tanti fratelli sacerdoti con i quali nel tempo è nata una bella amicizia, sin da subito ho incontrato e iniziato a stimare anche don Ettore Malnati, che già dopo una settimana dal mio arrivo mi ha invitato a presentare un suo libro presso il centro culturale Studium fidei.

Soprattutto, a Trieste ho trovato nel Vescovo un padre che mi ha fatto sentire accolto e accompagnato fin dall’inizio, invitandomi a casa sua la sera stessa del mio arrivo a Trieste. Abbiamo fatto una lunga passeggiata per le strade del centro assieme ad altri due giovani amici. Ci ha raccontato della sua vocazione e abbiamo mangiato un gelato. Invano da più parti si tenta di ingabbiarlo in categorie politiche o mondane, estranee al Vangelo. Gli uomini di Dio sempre sfuggono a queste etichette. Trieste ha ricevuto un grande dono. Ce lo ha detto anche il Papa… La gente semplice e i poveri se ne sono accorti subito. Forse tutti dovremmo diventare un po’ più semplici e poveri.

Hai parlato di missione. Quale senti che sia la tua missione?

Sono convinto che esista una sola missione nel mondo, quella del Padre che manda il Figlio e, insieme al Figlio, manda lo Spirito. Tutti i nostri piccoli o grandi slanci o sono partecipazione a quest’unica mis-sione oppure sono mera affermazione di noi stessi e sono destinati, infine, a rima-nere sterili.

La missione, così come la carità, sono dimensioni permanenti della vita di ogni cristiano, non possono mai essere delegate ad “esperti del settore”, magari anche assunti come dipendenti. Spesso, quando paliamo di missione pensiamo che sia qualcosa che riguarda solo alcuni, chiamati a partire per luoghi lontanissimi e poveri.

In realtà la lontananza e la povertà più grandi stanno nella dimenticanza di Dio e del prossimo. Da questo punto di vista, partire per il Minnesota o vivere a Trieste non fa differenza nella sostanza.

La missione è innanzitutto abbracciare ciò che il Padre ha pensato per te e lì, in quelle circostanze concrete e con quelle persone concrete, non in situazioni ideali – che non esistono – chiedere che Gesù venga, costruire luoghi di comunione, facendosi ferire dai bisogni e dalle domande dei fratelli e delle sorelle che incrociano la nostra strada.

Mi ha sempre colpito la scelta di Pio XI di proclamare Santa Teresina – che ha vissuto la sua breve vita tra le mura di un mona-stero di clausura – patrona universale delle missioni.

La missione è un atteggiamento del cuore: anche la più piccola cosa fatta nel segreto della tua casa e offerta a Dio può contenere l’orizzonte del mondo intero e riverberarsi nella vita di persone che magari vivono dall’altra parte del pianeta. La fecondità della nostra vita, infatti, non è legata a ciò che facciamo, ma al nostro essere lì dove Dio ci chiede di essere, rispondendo ad una vocazione che Lui stesso decide e che spesso si esprime in circostanze apparentemente banali e ordinarie.

Ci hai detto di appartenere alla Fraternità sacerdotale dei missionari di San Carlo Borromeo. Ce ne vuoi parlare?

La Fraternità San Carlo è una Società di vita apostolica di diritto pontificio. Siamo sacerdoti missionari, legati al carisma di don Giussani. Secondo una felice espressione del nostro fondatore – don Massimo Camisasca – la Fraternità è un gruppo di amici, «uomini che Cristo ha chiamato a vivere assieme per sempre. La necessità della missione li manda a vivere lontano. Ma vivono lontani come se vivessero sempre assieme».

Uno dei pilastri della nostra vita è il desiderio di vivere una comunione – che si esprime anche nel vivere e nel pregare insieme – che ci apra e si apra a tutti coloro che incontriamo, servendo – in obbedienza e in comunione con il vescovo nella cui diocesi viviamo – i bisogni della Chiesa e le persone che ci sono affidate.  La comunione fra noi, che durante l’anno si esprime anche attraverso momenti di incontro tra le nostre case sparse in tutto il mondo, vuole essere sostegno nel lavoro quotidiano della missione, cammino di conversione personale e via maestra attra-verso cui vivere il sacerdozio.

Sei stato chiamato ad essere parroco di Nostra Signora di Sion, una realtà dalla forte connotazione, guidata per cinquant’anni dal tuo predecessore. Vuoi condividere con noi qualche pensiero a tale riguardo?

Sono cosciente della grande eredità che il caro don Ettore ci lascia, come dello “sbandamento” che ciò sta forse provocando in tantissimi che in questi anni don Ettore ha incontrato e che ha accompagnato nel loro cammino umano e di fede. Ho grande rispetto per il dolore e il sacrificio che questo passaggio sta generando in tanti cuori. Nello stesso tempo, sono certo che tutto ciò che nasce da Dio non muore.

Questo passaggio, per quanto doloroso, è certamente anche l’occasione per compiere un passo ulteriore di maturità nella fede, sia per me – che in punta di piedi, con timore e tremore, ma anche con il cuore colmo di gratitudine e di desiderio entro in questa parrocchia – sia per tutti i parrocchiani e gli amici di Sion, che già in tanti modi mi hanno manifestato la loro accoglienza.

Cosa intendi per maturità della fede

Ritornare alla semplicità e disponibilità di cuore dei bambini.

Quando si segue veramente il Signore, presto o tardi si è dolcemente “costretti” ad arrendersi al fatto che Egli non coincide con delle cose che facciamo o con una dottrina. Egli è una persona vivente, è vivo! E, se è vivo, significa che continua a camminare in avanti e ci chiede di seguirlo verso lidi sempre nuovi. È una relazione, un cammino entusiasmante di scoperta ma anche di continua conversione.

Nella mia piccola esperienza ho imparato che non basta aver lasciato tutto una sola volta per seguirLo perché, essendo Lui (e tutto ciò che nasce da Lui) vivo, continua a crescere e così ogni passo che Gesù fa davanti a noi ricostituisce un nuovo “tutto” da lasciare sempre di nuovo. È come se ad ogni nuovo passo ci domandasse: Mi ami tu? Mi ami ancora come il primo giorno, quando eri pronto a seguirMi ovunque? Oppure tutto ciò che Io ti ho donato ti impedisce ora di seguirmi? Ami più Me o quello che fai per Me? La tentazione di ridurre Dio e il nostro rapporto con lui ad una forma del passato è in un certo senso la stessa identica tentazione, solo apparentemente opposta, di voler rivoluzionare tutto, come se non ci fosse una storia e una tradizione.

Contemplare il mistero dell’Incarnazione, di un Dio che si fa carne (e quindi ha una storia), ma continua a manifestarsi nel mutare dei tempi in modi sempre nuovi, ci aiuta a non cedere a queste tentazioni e ci insegna che la fede è una relazione viva con il Tu di Dio che ti chiama ora.

Tutta la bellezza e la verità di ciò un uomo ha vissuto fino a questo momento della sua vita si esprime sempre nella prontezza a dire si a ciò che Gesù gli chiede oggi, nel momento presente. Noi non siamo capaci di vivere questa continua vertigine del lasciare tutto e seguirlo, ma la Madonna è sempre pronta a farci questa grazia. Dobbiamo domandargliela.

A lei mi consegno e le affido tutti coloro che mi farà incontrare. Mater mea, fiducia mea!

Chiara Fabro


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