Si è appena concluso il 2024 e, con esso, il centenario della morte di uno dei più importanti e rappresentati operisti italiani: Giacomo Puccini. L’autore di immortali capolavori quali Boheme, Manon Lescaut, Tosca e Turandot si spegneva infatti a Bruxelles il 29 Novembre del 1924, dove si era recato per curare con il radio, in un estremo tentativo, un tumore alla gola oramai giudicato inoperabile (Puccini era stato per tutta la vita un accanito fumatore).
Finì così la parabola della vita di una delle figure più emblematiche e significative dell’opera italiana, degno erede di quella tradizione che collocava al centro del componimento la voce umana ma che, proseguendo sulla strada tracciata da Giuseppe Verdi, si distaccava definitivamente dagli stilemi del belcanto e poneva la musica al servizio dell’azione scenica (fondamentali gli studi milanesi con Amilcare Ponchielli e la profonda conoscenza della musica wagneriana, che influenzerà sia la sua tecnica orchestrale che compositiva).
Nato a Lucca il 22 Dicembre del 1858, la sua infanzia fu subito segnata dalla morte del padre (1864) ma, nonostante le conseguenti condizioni finanziarie disagiate, aggravate dalla nascita dopo tre mesi del fratello Michele, la madre insistette per avviare il giovane Giacomo agli studi musicali, perpetrando così una tradizione di famiglia (i Puccini erano dal più generazioni maestri di cappella del Duomo di Lucca, mentre lo zio materno, Fortunato Magi, fu direttore dell’Istituto musicale di Venezia).
Grazie ad un sussidio della Regina Margherita e ad un prestito di un amico di famiglia, poté frequentare sia il Ginnasio che l’Istituto musicale di Lucca, rivelandosi però un allievo quantomeno svogliato. Terminati gli studi di base, continuò con gran profitto lo studio della composizione con Carlo Angeloni, allievo del padre di Giacomo.
Già dai primi lavori, per quanto in stile ecclesiastico, si denotò immediatamente lo spirito teatrale che lo accompagnerà per il resto della vita, ed è proprio di questo periodo il celebre episodio che grande importanza avrà nel condizionare la scelta del suo cammino artistico: l’ascolto dell’Aida di Giuseppe Verdi presso il “Teatro Nuovo” di Pisa, a cui si recò a piedi da Lucca. Fu infatti questa rappresentazione che consolidò in lui la volontà di diventare un compositore di melodrammi. Nel frattempo, per contribuire alle magre finanze familiari, divenne organista in varie chiese di Lucca e si dedicò, anche qui con risultati non brillanti, all’insegnamento.
Dopo il conseguimento del diploma presso il conservatorio della sua città natale, il cui saggio finale fu la “Messa di Gloria” per quattro voci ed orchestra, si trasferì a Milano dove avvenne, come già menzionato, l’incontro con il compositore della “Gioconda”. Grazie ai suoi insegnamenti (l’influsso di Ponchielli si ritroverà spessissimo in tutti i suoi lavori), la produzione musicale di Puccini subì un notevole incremento, dopo il primo biennio durante il quale, sotto la guida del pur valente Bazzini, era stata decisamente scarsa (lo stesso Ponchielli, pur definendo Puccini uno dei suoi migliori allievi, lamenterà sempre la sua non proprio ferrea dedizione allo studio ed alla composizione). Ed è nella classe di composizione di Ponchielli che Puccini conobbe quello che sarebbe diventato uno dei suoi più cari amici e sostenitori: Pietro Mascagni.
È di questo periodo il “Preludio Sinfonico”, il Quartetto per archi, alcune liriche per voce e pianoforte e, soprattutto, il “Capriccio Sinfonico”, composto per l’esame finale e la cui prima assoluta fu eseguita da Franco Faccio, compositore e direttore d’orchestra di fiducia di Giuseppe Verdi (a cui fu affidata, fra le altre, la prima esecuzione dell’Otello ed al quale si deve la promozione della musica sinfonica europea in Italia).
È del 1883 la scrittura della sua prima opera, “Le Villi”, composta per un concorso indetto dall’editore Sonzogno: il giudizio totalmente negativo della commissione rischiò di stroncare sul nascere la carriera di Puccini ma, in seguito all’insistenza del librettista ed amico Ferdinando Fontana, poeta esponente della scapigliatura, le musiche dell’opera furono eseguite in forma privata nel salotto del giornalista Marco Sala, con al pianoforte lo stesso autore. Fra gli invitati, erano presenti Alfredo Catalani, Arrigo Boito e, soprattutto, Giovanna Lucca, celebre “talent scout” dell’epoca; l’accoglienza fu entusiastica, tanto che l’editore Giulio Ricordi patrocinò la prima rappresentazione de’ “Le Villi” al Teatro dal Verme di Milano l’anno seguente, dove il successo di pubblico e critica fu incondizionato. Questo eccellente risultato consentì a Puccini di iniziare una collaborazione con Ricordi, rapporto che si concluderà solamente alla morte del compositore e che si rivelerà fondamentale in molte situazioni difficili.
Una competizione con Ruggero Leoncavallo segnò l’inizio della scrittura de’ “La Boheme”: entrambi impegnati sullo stesso soggetto, la versione pucciniana andrà in scena a Torino, con ottimo successo di pubblico e parziale di critica, nel Febbraio del 1896 (alla bacchetta un giovane Arturo Toscanini). Dopo qualche piccolo ritocco, la partitura tornò ad essere rappresentata due mesi dopo, al “Teatro Politeama” di Palermo nella versione attuale, ottenendo un successo strepitoso: con buona pace del compositore dei “Pagliacci”, possiamo tranquillamente decretare Puccini quale vincitore.
Dopo pochi mesi iniziò la composizione di Tosca, tratta dal dramma omonimo di Victorien Sardou, su libretto di Illica e Giacosa. L’opera andò in scena al “Teatro Costanzi” di Roma il 14 Gennaio del 1900: criticata da una parte della stampa, il successo fu tale che nell’arco di pochi anni venne rappresentata nei principali teatri lirici del mondo. A questa fece seguito “Madama Butterfly”, il cui clamoroso insuccesso della prima scaligera fece nascere in Ricordi e nello stesso Puccini il dubbio che il fiasco fosse stato orchestrato ad arte: al di la di questo singolo episodio, stiamo parlando di uno dei capolavori del ‘900 che, dopo un breve rimaneggiamento, trionfò letteralmente in tutto il mondo.
La carriera di Puccini era oramai internazionale e le sue opere venivano regolarmente rappresentate nei teatri di tutta Europa, principalmente in Inghilterra e Francia. E’ del 1905 un suo viaggio a Buenos Aires e, nel 1907, assistette a New York al dramma di David Belasco “The girl of the golden west”, da cui fu tratto il libretto per “La fanciulla del west”, andata in scena con successo di pubblico al Metropolitan nel 1910 (direttore Arturo Toscanini ed Enrico Caruso nella parte di Dick Johnson).
Il periodo compreso fra la composizione della “Madama Butterfly” e “La fanciulla del West” fu particolarmente fortunato per la carriera di Puccini, ma molto tormentato da punto di vista personale. Nel 1903 un grave incidente automobilistico gli fratturò una gamba e diede inizio ad un calvario che si protrasse per mesi, lasciandolo claudicante (nonostante questo, portò a compimento la “Madama Butterfly”), mentre, nel 1906, morì Giacosa a causa di una grave forma d’asma, lasciando Puccini in grave difficoltà, orfano della coppia di librettisti con cui aveva così tanto proficuamente collaborato.
Nel 1909 un grave dramma familiare scombussolò la vita del compositore; una giovane donna al servizio di casa Puccini, Doria Manfredi, fu l’involontaria causa della gelosia della moglie Elvira Bonturi, che accusò ripetutamente il marito di riservare troppe attenzioni alla bella ragazza. I litigi erano frequenti e le maldicenze che iniziavano a circolare furono la causa del suicidio della giovane. Ne seguì una causa, risolta con un indennizzo alla famiglia Manfredi per evitare il carcere ad Elvira, che mise Puccini a dura prova, compromettendone molti progetti.
Nonostante il successo de’ “La fanciulla del west”, le difficoltà creative non diminuirono e, dalla morte di Giulio Ricordi (1912), Puccini ebbe sempre più problemi nel reperire dei soggetti adatti alla sua idea di teatro. Fra questi, vi fu la proposta, da parte degli impresari del Carltheater di Vienna, di musicare un libretto di Alfred Willne, progetto che, dopo varie vicissitudini e ripensamenti, darà vita all’opera “La rondine”, su libretto di Giuseppe Adami. Lo scoppio della Prima Guerra Mondiale ebbe come conseguenza la risoluzione del contratto con i commissionari viennesi e l’opera poté essere rappresentata solamente nel 1917 a Montecarlo, ricevendo un’accoglienza calorosa ma non convincendo pienamente il compositore del risultato, che iniziò ad apportare delle modifiche alla partitura a partire dal 1918.
Sempre durante la Prima Guerra Mondiale presero forma i tre atti unici riuniti sotto il titolo di “Trittico”: “Il Tabarro”, su libretto di Giuseppe Adami, “Suor Angelica” e “Gianni Schicchi”, su libretto di Giovacchino Forzano (la tanto ricercata collaborazione con Gabriele D’Annunzio non si concretizzò nemmeno questa volta, dopo tre precedenti tentativi declinati dal poeta). Il Trittico andò in scena al Metropolitan di New York subito dopo la fine della guerra: grande successo ebbero sia “Il Tabarro” che, soprattutto, “Gianni Schicchi”, mentre “Suor Angelica”, la preferita da Puccini, fu accolta più freddamente.
Nel 1920 Puccini iniziò a lavorare sulla sua ultima opera: Turandot. Era la prima volta che affrontava un soggetto fiabesco e fu il giornalista Renato Simoni che gli suggerì la novella omonima di Carlo Gozzi. Il gusto per la musica orientale che aveva affascinato l’Europa e le sue avanguardie (pensiamo a Debussy e Ravel), una protagonista per nulla tradizionale, un’atmosfera esotica… Tutti elementi che lo convinsero ad affrontare quello che sarebbe stato il componimento dalla gestazione più lunga e sofferta. La trama venne scritta dallo stesso Simoni, mentre il libretto fu affidato a Giuseppe Adami.
L’inizio fu positivo e la scrittura sembrava procedere speditamente, ma cominciarono a presentarsi da subito i problemi di adattamento del genere fiabesco, sostanzialmente estraneo alla tradizione operistica italiana: i personaggi subirono delle metamorfosi per meglio adattarsi allo stile melodrammatico e, con un colpo di genio, venne creata la figura di Liù, inesistente nella fiaba originaria (questo permise a Puccini di introdurre nella trama un tema a lui particolarmente caro e che si ritrova in molte delle sue figure femminili: il sacrificio per amore). Ma fu nel finale che la scrittura di Puccini si interruppe, davanti a quello che rimase un problema insoluto: la trasformazione di Turandot da “Principessa di gelo” a donna innamorata, dotata di sentimenti puri ed autentici.
L’idea del duetto finale, il climax di tutto il componimento, era chiara: un crescendo emotivo che sarebbe sfociato nell’apoteosi, il trionfo dell’amore che tutto vince… Ma come? Molte soluzioni si presentarono nella mente di Puccini, ma nessuna lo soddisfece. Gli anni passavano, la Turandot restava incompleta e la malattia avanzava. Nell’ultimo viaggio della speranza a Bruxelles, Puccini portò con se gli appunti per il duetto finale, ma tali restarono; la sua morte coincise con quella di Liù e, forse, era proprio questa l’idea: l’ultimo sacrificio nell’ultima opera.
Il finale fu affidato, su suggerimento di Toscanini, a Franco Alfano, ma il problema del duetto rimase (e rimane): il cambiamento di Turandot è troppo repentino e poco efficace, e forse fu proprio per questo Toscanini preferì non eseguirlo alla Prima della Scala. Le parole lapidarie con cui si rivolse al pubblico, interrompendo l’esecuzione subito dopo la morte di Liù, furono: “Qui finisce l’opera, perché a questo punto il Maestro è morto“, ma la sua leggenda era appena iniziata.
Permettetemi dunque di concludere questo mio breve excursus con questa frase altrettanto lapidaria: “Qui l’opera continua, perché a questo punto Puccini è più vivo che mai”.
Alessandro Vitiello