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Ed ecco un altro Giorno del Ricordo, con le sue commemorazioni e manifestazioni ufficiali e, per qualcuno, con il carico emotivo della storia personale, a cui si aggiungono le ultime testimonianze degli esuli viventi, che raccontano le vicende subite dai tanti istriani, fiumani e dalmati a guerra finita. Il Giorno del Ricordo è stato infatti istituito per far conoscere la tragedia delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata e le complesse vicende che hanno caratterizzato la storia del confine orientale.
Per decenni, a conservare e a valorizzare la memoria di quegli eventi ci hanno pensato le associazioni degli esuli, e dagli anni ottanta il lavoro delicato e certosino compiuto da alcuni storici, ora sempre più numerosi.
Dopo i discorsi, le commemorazioni, gli articoli di giornale, i servizi televisivi che accompagnano il 10 febbraio – lo dico del tutto a titolo personale e un po’ amaramente – se fra un mese o poco più gli echi del Giorno del Ricordo saranno silenziati, si potrà sentire di nuovo il pulsare tranquillo del cuore su avvenimenti, persone e luoghi che per qualcuno sono stati e sono parte della vita. Peraltro, e provvidenzialmente, continuerà il molto lavoro profuso per la formazione degli insegnanti sulla storia della frontiera orientale e si organizzeranno per gli studenti i viaggi del Ricordo, destinati a far conoscere loro queste terre e la loro storia. Infatti dal 2010 è attivo tutto l’anno un gruppo di lavoro congiunto fra Ministero dell’istruzione e Associazioni degli esuli, a indicare che c’è una sensibilità trasversale nelle istituzioni, ci sono molte persone impegnate e viene coinvolto un sempre maggior numero di enti di ricerca e studio, in tutta la penisola.
Ma cosa può significare celebrare il Giorno del Ricordo, a Trieste, in quest’anno segnato dal Giubileo della Speranza? Quale Speranza che non sia un buonismo “perché non accada più”, dal momento che sappiamo bene che è accaduto di nuovo, a tante latitudini, con diverse modalità ma con le stesse lacerazioni? E sappiamo anche, perché lo vediamo con questi occhi, che sta ancora accadendo, non lontano da noi, ma fra noi.
Figlia di esuli istriani, i miei fratelli ed io dobbiamo la nostra vita all’esilio dei nostri genitori, perché a Trieste loro si sono incontrati e hanno accettato la sfida della vita in anni che non si possono certo definire “facili”. Devono aver vissuto la Speranza, devono averla praticata a favore di loro stessi e anche a favore della vita, e la vita si è allargata. Così hanno fatto tantissimi altri, diventando parte attiva e operosa di una città e di una società che sono cresciute anche grazie a loro.
Allo stesso modo oggi si tratta di far emergere le qualità intrinseche degli abitanti di questa parte del mondo che è l’Adriatico orientale, da sempre territorio plurale, ricco di diversità: il lavoro, la pazienza, la tenacia e poi la capacità di far festa con poco, l’accoglienza dell’ospite con cui essere generosi, perché nell’altro ci si riconosce: nell’ospite, nell’estraneo, che, se accolto, finisce per essere straniero per poco tempo. E il coraggio, con una sana dose di realismo.
A ben guardare, ci sono germogli di speranza anche in questo Giorno del Ricordo e in questa nostra città: ci sono giovani discendenti da giuliani che desiderano ritornare a vivere e a lavorare qui, dopo due generazioni oltreoceano – l’abbiamo letto su precedenti articoli di questo nostro Domenicale qui e qui – e mentre scrivo mi arriva la notizia che anche quest’anno, una scuola di Trieste riceverà un premio dal Presidente Mattarella per aver svolto un lavoro, in classe, sul valore della memoria nell’esodo istriano. Sono dimostrazioni del fatto che, se bene indirizzati, i giovani rispondono con coraggiosa inventiva, quella che oggi chiamiamo “resilienza”, ad avvenimenti di per sé sconfortanti e segnati dalla sconfitta.
E allora: coraggio! Che cosa ci chiede la storia della nostra città e del nostro territorio, se non di girare la testa e accorgerci dell’altro, se non di alzare lo sguardo per guardare al cielo?
Chiara Vigini