Antiche e nuove povertà: una sfida perenne per i Cristiani

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La carità non è per la Chiesa una specie di attività di assistenza sociale ma è espressione irrinunciabile della sua stessa essenza.

Prov. 19, 17 Chi fa la carità al povero fa un prestito al Signore / che gli ripagherà la buona azione.

Quando si affrontano questi temi: povertà, poveri, carità, è possibile spesso incorrere in discorsi che cercano di coprire nient’altro che degli alibi, attraverso i quali tendiamo a “smarcarci” dalle nostre responsabilità. Un po’ come la risposta di Caino nel libro del Genesi.

Eppure i poveri, i tanti poveri li abbiamo qui, davanti a noi, siano essi in carne ed ossa o siano presenti come immagini drammatiche che scorrono continuamente sui nostri schermi. Tanti sono, ma noi ne vediamo solamente e in maniera sporadica solamente una piccola parte.

Ora, prima di dire qualcosa intorno ad essi e alle loro realtà, qualora ne fossimo in grado, preme cercare di chiarire e chiarirci cosa significano questi termini (povertà, poveri, carità), appena richiamati. È stato detto che nella civiltà e nella filosofia classica il povero è lo “schiavo”; nell’età moderna, è “il proletario sfruttato”; nel postmoderno il povero è “l’escluso”.

E infatti, oggi si può affermare che sono poveri coloro che sono gli esclusi. Esclusi economicamente, ma anche dalle relazioni sociali, dalle opportunità, dalle richieste esigenti e dai ritmi incalzanti della modernità.

Probabilmente, hanno ragione coloro i quali sostengono che l’unica domanda interessante è: “Quando si è poveri?”. È infatti vero che, ad esempio, sulla misura della povertà non si è concordi. Con il denaro posseduto in un determinato Paese la cui quantità permette di vivere agiatamente, in un altro si farebbe seria fatica ad arrivare alla fine della giornata. Per tale motivo ci rifacciamo alla definizione data dall’Enciclopedia Treccani, che afferma: “povertà: stato di indigenza consistente in un livello di reddito troppo basso per permettere la soddisfazione di bisogni fondamentali in termini di mercato, nonché in una inadeguata disponibilità di beni e servizi di ordine sociale, politico e culturale”.

Ecco, credo che su questa definizione saremmo tutti d’accordo. Povero quindi è colui il quale, non riuscendo a soddisfare i bisogni fondamentali, si ritrova nella necessità di chiedere un aiuto o un sostegno ad altri, lo Stato o la società civile, ad esempio. Povero è però altresì, chi non ha un’adeguata disponibilità di beni e/o servizi di carattere sociale, politico e culturale. E qui la platea si allarga e soprattutto la sua individuazione risulta più difficile.

Entrano in gioco qui, per l’appunto, le “nuove povertà” che si affiancano alle “vecchie povertà”, in un complesso gioco di difficile risoluzione, vista la loro crescita esponenziale in questi anni.

Delle nuove povertà, poi, non abbiamo chiara e immediata evidenza, dato che esse aumentano in maniera inaspettata e nascosta, nonostante tutti i discorsi roboanti fatti in modo anche molto superficiale, in questi ultimi decenni.

Come non ricordare ad esempio le varie sessioni della FAO che si sono tenute in questo terzo millennio e che ripetutamente annunciavano, se non la scomparsa, almeno la netta riduzione della fame nel mondo? Oppure qualche politico nostrano che affermò, da un balcone, che in Italia si era finalmente vinta la povertà. Viste col senno di poi, queste affermazioni lasciano una sorta di triste amarezza, visti i risultati raggiunti nei vari Paesi, ma soprattutto ai cristiani ritornano con facilità i passi del Vangelo dove Gesù dice: “I poveri li avrete sempre con voi”.

Chi sono, oggi, i poveri, nelle nostre società? Sono innanzitutto quelli “storici”, ma li troviamo anche in quelle fasce sociali nelle quali prima non avremmo mai pensato ci potessero essere. Ad esempio le nuove generazioni. I giovani o giovani adulti che sono i più esposti alle nuove tensioni e scelte economiche del mercato, coloro i quali sono sempre più impiegati nella sharing economy o economia della condivisione (che detta così può sembrare anche una cosa carina) e che viene anche definita come gig economy, servizi on demand, peer to peer economy. Un esempio, in questo settore è certamente Uber. Citiamo le parole di Riccardo Staglianò (Lavoretti, Einaudi 2018), che, a proposito, afferma: “Chi possiede la piattaforma estrae, secondo una modalità neofeudale, una commissione da chi svolge la prestazione. Così il vassallo Travis Kalanick in un lustro passa da zero a sette miliardi di ricchezza personale, mentre sempre più autisti di Uber, dopo l’ennesima decurtazione alle tariffe, dormono nei parcheggi zona aeroporto di San Francisco, per essere i primi ad aggiudicarsi le corse buone”. E non bisogna pensare che lavoretti di questo tipo ce ne siano pochi. Sempre più le nuove generazioni si ritrovano a dover accettare dei lavori sottopagati che non permettono loro, ad esempio, di poter fare una scelta di vita autonoma oppure di metter su famiglia. Se poi pensi anche di volere dei figli, se non hai delle reti familiari di protezione, scordatelo! Se a questo aggiungiamo anche la precarietà del lavoro, anche di quelli che un tempo erano considerati stabili (nessun tipo di lavoro ormai ne è esente), le cose diventano veramente difficili. Un’altra difficoltà, ad esempio anche in città come la nostra, la ritroviamo nell’aumento vertiginoso degli affitti. Si dice sempre che sono purtroppo le regole del mercato, ma la Dottrina Sociale ci insegna che l’economia è per l’uomo e non l’uomo per l’economia.

Ancora, troviamo delle povertà di carattere relazionale. Quanti anziani soli nelle proprie case oppure “parcheggiati” in case di riposo? Quanti ragazzi e ragazze che trascorrono il loro tempo chiusi nelle loro camerette a chattare oppure a giocare online compulsivamente? Anche in Italia ci sono gli hikikomori ormai. Ci sono poi quelle categorie che troviamo già nella Bibbia e che vengono considerati coloro verso i quali Dio ha particolare attenzione e cioè la vedova, l’orfano e lo straniero. E queste sono categorie particolarmente vulnerabili e verso le quali la misericordia di Dio si rivolge. Nelle famiglie o unioni, che si sciolgono ad esempio, è nei fatti quasi sempre la donna che ne paga maggiormente le conseguenze, dovendo magari trovarsi una casa, un lavoro e dovendo pensare alla cura dei suoi bambini. Quindi, non occorre più che sia vedova. Ovvero diventa vedova di relazioni familiari.

Sicuramente di esempi su questi temi ognuno ne avrebbe molti altri ancora da aggiungere.

Cosa fare? Come dire Dio nell’oggi, da cristiani?

Una risposta a queste domande la possiamo ritrovare nelle parole che il teologo don Rinaldo Fabris scrisse molti anni fa e che rimangono ancora molto attuali: “Alcuni vedono nell’interesse della chiesa per i poveri, per gli immigrati, per gli stranieri, per tutte le categorie deboli, semplicemente il soddisfacimento di un bisogno sociale. Fare assistenza e la carità è visto come una dimensione morale e sociale dell’agire cristiano. Credo che si dimentichi qual è la radice teologale di questo agire. Non è solo un’esigenza sociale o etica o morale, ma è la riproduzione del modo di agire di Dio: Per questo ti comando di fare queste cose, perché il Signore ti ha liberato. Tu devi difendere, accogliere il povero perché hai fatto esperienza di libertà e dell’amore di Dio, e perciò lo devi testimoniare e rendere presente con un’attitudine e un modo di agire corrispondente”.

Ancora, ma di citazioni se ne potrebbero portare moltissime, le parole di papa Benedetto XVI, che nell’ormai lontano 2005, nella sua enciclica “Deus caritas est”, ci esortava dicendo: “L’intima natura della Chiesa si esprime in un triplice compito: annuncio della Parola di Dio (kerygma-martyria), celebrazione dei Sacramenti (leiturgia), servizio della carità (diakonia). Sono compiti che si presuppongono a vicenda e non possono essere separati l’uno dall’altro. La carità non è per la Chiesa una specie di attività di assistenza sociale che si potrebbe anche lasciare ad altri, ma appartiene alla sua natura, è espressione irrinunciabile della sua stessa essenza” (25 a).

Arrivati alla fine di queste riflessioni, e riassumendo il tutto, lo facciamo con le parole di papa Francesco, che ci ricorda costantemente che la carità non è delegabile e nella sua ultima enciclica (Dilexit nos) avverte che “san Vincenzo diceva sempre che: ‘Dio chiede prima di tutto il cuore, il cuore: questa è la cosa principale. Perché chi non possiede nulla può aver più merito di chi ha grandi possessi ai quali rinunzia? Perché chi non ha nulla va a Lui con più affetto; ed è questo che Dio vuole in modo tutto particolare” (148) e ancora “La proposta cristiana è attraente quando può essere vissuta e manifestata integralmente: non come semplice rifugio in sentimenti religiosi o in riti sfarzosi. Che culto sarebbe per Cristo se ci accontentassimo di un rapporto individuale senza interesse per aiutare gli altri a soffrire meno e a vivere meglio? Potrà forse piacere al Cuore che ha tanto amato se rimaniamo in un’esperienza religiosa intima, senza conseguenze fraterne e sociali? Siamo onesti e leggiamo la Parola di Dio nella sua interezza (205).

Paolo Emilio Biagini

Foto di Alexander Fox | PlaNet Fox da Pixabay


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