Che vale il mondo rispetto alla vita? E che vale la vita se non per essere data? Non ho potuto evitare queste domande quando ho ascoltato la commovente testimonianza di Franco Bonisoli. L’ideale di giustizia era diventato per lui, alla fine degli anni ’70 del secolo scorso, una domanda così stringente e lacerante da indurlo a lasciare tutto per la clandestinità, abbracciando la lotta armata e aderendo alle Brigate Rosse. Questa totalità nel dare la vita, questa adesione all’ideale con tutto sé stessi – anche se il metodo si rivelerà poi del tutto sbagliato e violento – è in fondo analoga alla radicalità evangelica: “lascia tutto e seguimi” dice Gesù a ciascuno dei suoi, “e in cambio avrai il centuplo quaggiù e l’eternità”. Davvero il cuore umano può essere grande, capace di questo amore senza misura. Ma le Brigate Rosse cosa c’entrano? Il rapimento di Aldo Moro e l’uccisione degli agenti della sua scorta? (Bonisoli partecipò personalmente e attivamente alla strage).
Venerdì 25 ottobre ho ascoltato con trepidazione e grande interesse, presso la sala Piccola Fenice di via San Francesco a Trieste, le due testimonianze tenute davanti a oltre 200 persone in silenzio. Il titolo della conferenza, introdotta da Marta Romanelli per il Centro Culturale Mons. Bellomi e da Giovanni Grandi, professore di filosofia morale presso l’università di Trieste, era questo: “Storia di una improbabile amicizia. Un percorso di giustizia riparativa nelle testimonianze di Agnese Moro e Franco Bonisoli”. Il percorso di Franco Bonisoli si incrocia con quello di Agnese Moro, entrambi sono accomunati dal desiderio struggente di capire, di incontrare, di conoscere l’altra parte. Da una parte ci sono i parenti delle vittime del terrorismo degli anni di piombo, dall’altro ci sono i “carnefici”, i pentiti, quelli che hanno fatto il percorso contrario. In mezzo ci sono persone dedicate alla mediazione, come ad esempio padre Guido Bertagna che ha una parte importante. Qual è il punto di incontro? Agnese, figlia di Aldo Moro, venticinquenne all’epoca del rapimento e del barbaro assassinio del padre, lo dice chiaramente: “Non esiste giustizia riparativa per l’irreparabile”, non si può restituire una vita, non si può ripagare il dolore per il male subito. Che possibilità c’è, allora, di trovare un punto d’incontro tra chi uccide e chi perde i propri cari? Bonisoli racconta il punto più buio della sua vita, dopo uno sciopero della fame, in una notte simile a quella dell’Innominato manzoniano: “a che vale tutta questa sofferenza? Cosa cerco veramente? Che possibilità c’è ancora per la mia vita”? In queste segrete e intime domande, e dopo alcuni incontri, in carcere (dove sconta la pena per oltre 22 anni), qualcosa inizia a cambiare… Mentre Franco parla, a tratti si vede Agnese fargli qualche carezza, in particolare nei momenti in cui si commuove. Ma quando è il suo turno di parlare, non ci sono sconti: la giustizia riparativa è una bella ambizione, ma “mio padre non è più tornato a casa e i cinque uomini della scorta non ci sono più”. La giustizia, quella umana, ha fatto qualcosa di importante, ma non ha nemmeno sfiorato il dolore di una figlia, e poi il dolore di una madre che si era illusa di proteggere i suoi figli tacendo i suoi sentimenti, tacendo l’accaduto. Di cosa mi può ripagare la sofferenza di Franco in carcere? Cosa ci guadagno io da questo? Fantasmi, dice Agnese, “fantasmi a quintali” si affollavano nella mente, con un passato immobile che pesava sempre sul cuore. Un dolore sordo. Ecco il punto: per cambiare le cose c’è stato bisogno di dialogare, di scriversi, di incontrarsi per tanti anni. Perché? Perché tutti abbiamo questo dolore, questo problema dell’irreparabile. La prima volta che incontrai Adriana Faranda – racconta – mi disse “quanto ho desiderato questo incontro!” Come mai? Perché abbiamo bisogno di parlarci, di ascoltarci? Non c’è altro modo, solo così il passato inizia a muoversi, i fantasmi diventano persone, e le persone non si possono odiare. Siamo uguali, ma proprio uguali. Quando ci incontriamo, diamo un volto e un nome all’altro, e non possiamo più odiarci. Come si fa a odiare Franco? Gli inferni che ci portiamo dentro, nel tempo, dopo tanto tempo, diventano più “trasportabili”, e ci accorgiamo di essere uguali. Qualcosa cambia. Entrambi gli interventi vengono seguiti in un silenzio pieno di attesa, e alla fine di entrambi gli interventi il pubblico si scioglie in un lungo applauso. Cosa muove il cuore dell’uomo? Quale desiderio? Quale speranza? Ripensandoci mi è venuta in mente una vecchia canzone di Claudio Chieffo, “La ballata del potere”, in cui ripercorre un po’ la vicenda dell’ideologia di quegli anni: “Forza compagni, rovesciamo tutto, e costruiamo un mondo meno brutto”. Per realizzare questo disegno, pur buono in sé, bisogna però affrontare il nemico, “le carogne dei borghesi” ed ecco che “il sangue già versato” tocca ad entrambe le parti, costringendo ognuno a chiedersi quale sia il senso di tutto questo. “I compagni furon forti, e si presero il potere, ma i miei amici furon morti, e li vidi io cadere”. Come ritrovare la pace, come riconciliarsi? Chieffo, nella canzone, risponde con una nuova domanda: “ora tu dimmi come può sperare un uomo, che ha in mano tutto, ma non ha il perdono”. “C’è bisogno di qualcuno che ci liberi dal male”. La vicenda di Franco e Agnese, e di tanti come loro, ci indica quindi una speranza, una strada che tutti possiamo percorrere sempre. Rischiando, certo, rischiando, ma ne vale sempre la pena. L’amicizia “improbabile”, e che sembra impossibile, accade.
Stefano Bochdanovits
Foto Piero Calucci