
La santità dei fanciulli e delle fanciulle è un fenomeno che ha visto i natali fin dai primordi del cristianesimo perché la chiamata ad essere santi non conosce età. Anzi: «Ogni età è matura per Cristo» (S. Ambrogio). La canonizzazione di Carlo Acutis (1991-2006), ne costituisce un esempio attuale, ma non è il solo. A Trieste, per esempio, vi è una via piuttosto trafficata, via Piccardi, dove dal di fuori di un condominio molto popolare al numero civico 27 campeggia anche oggi una piccola lapide in marmo bianco dove si legge: «Qui visse e morì Aldo Marchetti, luminoso esempio di vita cristiana. Trieste 3.VIII.1920 – 25.I.1940)». Tra la gente del capoluogo giuliano e della diocesi tergestina il ricordo di questo giovane è ancora piuttosto vivo, tale da suscitare in chi vi arriva per la prima volta il «perché?» sia così e la curiosità circa la sua vita e la sua fede, che stimolarono, tra l’altro, due Gesuiti a scriverne la biografia. Chi era, dunque, Aldo Marchetti e perché la gente lo ricorda ancora, anche nel XXI secolo?
La prima limpida educazione cristiana in famiglia
Aldo Marchetti nacque il 3 agosto 1920, unico figlio del papà, un carabiniere originario di Ferrara e della mamma Maria Conestabo, nativa di Pirano (Istria) e nona di 17 figli. I due si erano uniti in matrimonio nel 1919, nell’anno in cui il marito carabiniere poté entrare a far parte delle guardie municipali di Trieste. Aldo si era molto affezionato al papà perché ogni giorno, dopo i turni di guardia, lo accompagnava per un giro pomeridiano in città e, soprattutto, per la visita all’altare della Madonna nella chiesa di San Vincenzo de’ Paoli, che fu la sua parrocchia. Il papà morì che Aldo aveva solo quattro anni. La famiglia di Aldo risultò, così, composta dalla mamma, dalla nonna, che divenne presto cieca a causa di un forte diabete, a cui la mamma doveva accudire per l’intera giornata, dalla zia Amelia Conestabo, che percepiva un modestissimo stipendio quale istitutrice, e dallo zio materno. Proprio in questo clima di povertà, di umiltà e di sofferenze passeranno, uno dopo l’altro, i pochi anni di esistenza di questo giovane, chiamato a una vocazione del tutto singolare.
A scuola e il primo incontro con Gesù
A sei anni iniziò a frequentare le elementari, dimostrando fin da subito un ingegno pronto e brillante. Al contempo, aiutato anche dalla mamma, coltivava e curava la sua fede cristiana. Ogni giorno, al rientro da scuola compiva una visita a Gesù presente nell’eucaristia e alla Madonna nella chiesa parrocchiale di San Vincenzo de’ Paoli, dove, qualche anno prima, lo aveva accompagnato quotidianamente il babbo. Ora, invece, era la mamma ad accompagnarlo. In premio del suo buon comportamento e, forse, anche in ragione delle necessità economiche della famiglia, gli fu conferito il diritto a un posto gratuito nel Convitto Nazionale di Cividale del Friuli, dove avrebbe potuto continuare i propri studi fino all’età di diciannove anni.
Il cuore di Aldo, piuttosto sensibile, si trovò a tergiversare tra il dispiacere, da una parte, di doversi separare dalla mamma e dalla nonna e, dall’altra, dal suo amore allo studio, al suo ideale di apostolato, quello di far conoscere Gesù, e al sollievo economico che, in questo modo, avrebbe apportato rispetto alle ristrettezze della famiglia.
Giunse, intanto, il giorno tanto atteso della prima Comunione, il 9 giugno 1928. Tutto era pronto; mamma Maria, però, non poté essere presente perché proprio in quei giorni si trovava immobilizzata a letto a causa di una seria polmonite e fu costretta, quindi, a rimanere a Trieste. Ora, è facile immaginare cosa abbia significato questa assenza per il piccolo Aldo, che proprio in quel giorno si accostava per la prima volta a Gesù. In realtà, Gesù, il Figlio di Dio, stava preparando questa sua creatura, abituandolo a quella che, di lì a poco, sarebbe stata una vera «chiamata eucaristica», perché contrassegnata dal dolore e dalla sofferenza.
I primi sintomi di una terribile malattia
Siamo a metà del mese di luglio del 1929, il giorno 15. Aldo ha soltanto nove anni. Comincia ad accusare alcuni dolorosi sintomi che non si riescono a eliminare, per cui la mamma pensa giustamente di iniziare degli accertamenti clinici, ottenendo una diagnosi allarmante: poliartrite deformante. Iniziarono le prime cure che si protrassero fino a tutto il mese di marzo dell’anno successivo. Forse il piccolo cominciava a intuire qualcosa perché espresse il desiderio alla mamma di poter ritornare in convitto, non senza prima aver chiesto aiuto alla Beata Vergine di Castelmonte. Chiese, dunque, alla mamma di accompagnarlo, pernottando a Cividale del Friuli, dove vivevano dei loro parenti. Alzatosi alle sei del mattino, alle sette il fanciullo poté partecipare alla santa Messa, parlare con un frate Cappuccino e, soprattutto, chiedere l’intercessione alla santa Vergine in una preghiera prolungata per la grazia della guarigione o, almeno, per quella di poter compiere la santa volontà di Dio. Poco dopo, Aldo si alzò come trasfigurato da una gioia misteriosa. Infatti, aveva intuito che la nostra salvezza non coincide con la salute del corpo se, avendo quella, deturpiamo la bellezza dell’immagine di Dio in noi, intristendo lo Spirito Santo che ci è stato dato (Ef 4,30). È meglio soffrire nel proprio corpo e nell’intimo del proprio animo piuttosto che venir meno alla volontà di Dio in noi.
Rientrato, come desiderava, nel convitto di Cividale del Friuli, Aldo riuscì a terminare la quarta elementare, poi ritornò a Trieste. Questa volta per sempre. Il male gradatamente, ma pesantemente, peggiorava ogni giorno e i dolori si facevano sempre più acuti. Sul volto di Aldo, però, nessuno notava segni di tristezza o di malinconia, pur rendendosi anch’egli conto della dura realtà che stava affrontando. Chi lo osservava attentamente prima di colloquiare con lui rimaneva sorpreso da quella forza superiore che guidava il suo pensiero e i suoi sentimenti di fanciullo martire.
L’inizio di cure dolorose e il desiderio del viaggio a Lourdes
Intanto Aldo raggiunse l’età di dieci anni. Nell’autunno del 1930, il medico curante pensò bene di ricoverarlo in ospedale per una diagnosi più attenta e approfondita. Non conveniva farsi illusioni, ma era sempre opportuno prendere tutte le precauzioni umanamente possibili. Venne accompagnato dalla mamma, ma appena Aldo si accorse che questa accennò ad andarsene, fu un dramma per entrambi: si dovette lottare non poco per convincerlo che si trattava di aver pazienza per soli otto giorni. Ma non furono solo otto. Si arrivò, infatti, al marzo dell’anno successivo: nel 1931, quando Aldo fu sottoposto a una nuova dolorosissima cura; ogni giorno, per due ore, doveva stare immobile a letto, fra impacchi di erbe che gli producevano nel corpo dolori e fastidio. Aldo sopportava tutto per amore di Gesù a tal punto che sia il medico che le infermiere addette alla sua assistenza ne rimanevano stupiti. Nel maggio successivo, mese dedicato alla Vergine Maria, manifestò al medico curante, il dott. Gloduli, il suo profondo desiderio di recarsi in pellegrinaggio a Lourdes. Fu lo stesso medico che inoltrò la richiesta alla direzione dell’UNITALSI. Quando lo raggiunse la notizia che la sua domanda era stata accolta, pianse di gioia e decise di prepararsi spiritualmente e fisicamente a intraprendere il lungo viaggio, grazie anche alla conoscenza del frate minore francescano fra Egidio Barbujani, un religioso davvero buono e amorevole, che l’avrebbe accompagnato durante tutto il pellegrinaggio.
Arriviamo, così, al 1° luglio 1931. Aldo viene affidato a fra Egidio Barbujani che se ne prese una cura tutta paterna. Il mattino della partenza, con grande fervore, fece la santa Comunione e, nel momento in cui il treno diede il primo segnale di partenza, Aldo scoppiò in un pianto dirotto di commozione. Ma appena arrivato a Venezia scrisse alla mamma una cartolina, raccomandandole di non piangere e di affidarsi completamente alla bontà della Vergine Maria; lo stesso fece da Verona. Da Lourdes, poi, scrisse subito alla mamma una letterina in cui le confidava che non avrebbe mai più voluto partire da quel luogo di silenzio, così vicino alla Madonna, tante erano le consolazioni spirituali di cui si sentiva ricolmato.
Questa è la mia missione: poter soffrire
Di quel pellegrinaggio, frate Egidio Barbujani ci ha lasciato un resoconto scritto assai importate per la nostra ricerca. «Il carattere gioviale e insieme forte di Aldo – scrive il frate minore – gli attiravano l’attenzione e la simpatia di quanti l’avvicinavano, anche per una volta soltanto. Da tutto il personale del treno, delle piscine e delle grotte, fu ammirato per la sua pietà e per il suo angelico fervore nel pregare e nel partecipare ai vari momenti liturgici e di devozione, a tal punto che, anche negli anni successivi, più volte si chiedevano notizie di lui». «Per quanto fosse aperto con me, che lo ascoltavo in confessione, si mostrava tuttavia di qualche ritegno quando parlava di se stesso e di cose che egli sentiva intimamente nell’anima. Notavo in lui un totale abbandono in Dio; tanto che quando gli dicevo “Aldo, mettiamo tutto nelle mani di Dio, la vita e la morte!”, egli mi rispondeva con un sorriso paradisiaco, che rivelava il pieno consenso del suo cuore generoso. Nascondeva sempre il suo soffrire; ed anche interrogato, mi rispondeva: “Sì, mi sento poco bene: ma Gesù ha sofferto ben altro!”. La gioia nel dolore fisico era in lui accompagnata sempre da una presenza che lo rendeva radioso. Il suo viaggio a Lourdes fu per lui un viaggio di fede e di rassegnazione; da quel santo luogo egli cominciò a vivere una vita di più intima unione con Gesù e con Maria, che segnò una svolta decisa nel cammino ascensionale dell’anima sua». Senza dimenticarsi che Aldo era soltanto un ragazzino undicenne.
Rientrato a Trieste, Aldo trovò la mamma ad attenderlo alla stazione ferroviaria. Lo accolse tra le proprie braccia e se lo strinse al cuore, dopo quasi sette giorni di assenza per quel pellegrinaggio. Notò che il figlio era ritornato quasi trasfigurato nel volto e nell’anima, benché inchiodato ancor più saldamente nella sua dolorosa malattia e, forse, misteriosa missione: era proprio questo l’interrogativo che, oramai, questa giovane vedova e mamma stava elaborando nel proprio cuore, dopo mesi e mesi di riflessione e tanta preghiera a Dio e alla Vergine sua madre. Il fanciullo ebbe modo, infatti, di rivelare alla mamma i segreti percepiti in quei giorni alla grotta di Massabielle e di comunicarle la luce attinta, come l’acqua miracolosa alla fonte di quel santuario nel sud della Francia. Un giorno, però, una zia in quel tempo assai lontana dalla pratica cristiana e non molto credente, non vedendo nel nipotino nessun miglioramento, gli disse: «Senti, Aldo: tu sei stato a Lourdes per chiedere alla Madonna la grazia della tua guarigione: ma io vedo che tu non hai ottenuto nulla, perché il tuo male non è diminuito affatto; anzi è peggiorato. Dunque, vedi che la Madonna non è stata buona con te; io, poi, credo poco a questi cosiddetti miracoli». Il volto di Aldo si offuscò immediatamente, gli occhi gli brillarono di lacrime e, in tono alquanto severo, le intimò di uscire subito dalla sua cameretta, soggiungendo: «Povera zia. Quanto mi fai compassione! Tu non hai la vera fede perciò non puoi comprendere la grazia più grande che mi ha fatto la Madonna! È vero che non ho ricevuto la guarigione, ma un dono incomparabilmente migliore, ed è che sono felice di poter soffrire. Questo è il dono che Maria fa alle sue anime predilette»18. Pensiamo, anche in questo caso, che si tratta di un fanciullo che ha appena terminato la quarta classe elementare.
In realtà, la fede cristiana insegna che il mistero pasquale è unico, ma ha – per così dire – due facce: una di morte e l’altra di risurrezione. Aldo, piano piano stava comprendendo che l’unione intima con Gesù, da lui tanto amato, si nutriva ogni giorno di momenti di risurrezione, ma anche di altrettanti momenti di passione e di morte perché entrambi costituiscono l’unico mistero cristiano: entrambi sono stati incarnati nell’unica persona di Gesù Cristo, Figlio di Dio. E così avviene per ogni cristiano.
Il ritorno sulla Croce
Mamma Maria assisteva ammirata a questo svolgersi delle tappe della “storia di salvezza” riguardanti suo figlio. Ma cercava, al contempo, qualche possibilità per proteggerlo dalla malattia e farlo curare. Verso la fine di settembre del 1931 si decise di metterlo all’ospizio del Lido di Venezia al fine di sottoporlo a cure intensive, che, però, non valsero a nulla: il male peggiorava di giorno in giorno. Anche in questa nuova dimora, come prima a Trieste, i medici, le suore e i suoi piccoli compagni avevano per lui una predilezione speciale. Nonostante queste nuove cure, il 5 gennaio 1932 Aldo poté camminare per l’ultima volta; poi dovette rinunciarvi per sempre, senza che mai avesse a mostrarne il minimo rimpianto, confortandosi col pensiero di una più magnifica agilità nel percorrere le vie dello Spirito. Non curante di sé, era pieno di preoccupazioni per la sua cara mamma che in quel tempo era caduta ammalata e spesso le scriveva dandole tante raccomandazioni perché si curasse e mostrandole sempre il più tenero affetto filiale.
Rimase a Venezia per nove mesi, assistito negli ultimi tre dalla mamma. Passato, quindi, a Cividale del Friuli per qualche breve tempo, nel mese di giugno tornò a Trieste, dove fu felice di ricevere la visita del caro amico fra Egidio Barbujani e di molte altre persone che rimanevano edificate e meravigliate del suo imperturbabile sorriso in mezzo alle più dure sofferenze; anzi, egli stesso aveva parole di conforto per tutti. Un giorno venne a fargli visita una signora, che lo vedeva per la prima volta: nello scorgerlo così sereno tra tanto patire, provò un senso di tale pietà da non poter trattenere le lacrime. Quindi, gli disse: «Senti, caro Aldo, ogni persona deve portare la sua croce, ma la tua mi sembra davvero troppo pesante!». Nel percepire queste parole, molto candidamente le rispose: «Non sono io che porto la mia croce, bensì Gesù che la porta per me». Queste parole, che sembrano l’eco di quelle di tanti martiri della comunità protocristiana, commossero talmente quella signora, che non avrebbe mai più voluto staccarsi da quel lettino, che per lei si era trasformato come in un altare di offerta, di sacrificio e di immolazione, in quella via Piccardi n. 27, cui abbiamo accennato, adiacente alla parrocchia di San Vincenzo de’ Paoli, la parrocchia di Aldo, il cui cooperatore era don Nicola Crestani.
Fin dai primi giorni del suo ingresso nella parrocchia di Aldo, questi volle farne la conoscenza e, così, ne scrisse le impressioni: «Dal primo incontro ne rimasi stupito, sia per la sua intelligenza pratica e assennata, sia per la sua santità. Mi recai più volte a fargli qualche lettura spirituale, a intrattenerlo con buoni e santi consigli e passare un’ora di santa letizia insieme coi suoi familiari; per me, Aldo non era ammalato, tanto si stava bene presso il suo letto».
Gesù a casa sua e le “nozze” di Aldo
Tranne per qualche eccezione, mamma Maria era sempre presente alle visite dei vari ospiti e, piano piano, cominciava a conoscere sempre meglio i desideri più o meno reconditi del proprio figlio. Nonostante la gravissima difficoltà che ciò comportava, ella aveva sempre provveduto a portare e ad accompagnare Aldo in chiesa per la santa Comunione. Finché, nel giugno del 1932, il mese in cui rientrò a Trieste da Venezia, per la prima volta Aldo vide Gesù varcare la soglia della sua stanzetta nel sacramento dell’eucaristia: gli fu, infatti, portata per la prima volta la Comunione proprio a casa. Subito esclamò rapito: «Gesù si degna di venirmi a trovare proprio in casa mia!».
Arriviamo, così, all’anno 1933. Aldo ha tredici anni. Un giorno, al termine di un momento di intensa preghiera, ebbe un’intuizione: far sì che la sua famiglia si consacrasse solennemente al Sacro Cuore di Gesù. La sua famiglia – come sappiamo – era composta di due sole persone: lui e la mamma ed egli ne era l’“unico erede”. Era una famiglia povera che viveva a mala pena tramite quel misero sussidio pubblico, inviato mensilmente alla zia Amelia.
Ciò nonostante, per quella circostanza Aldo volle che fossero diramati inviti, proprio come per delle nozze, a tutte le persone legate in qualche modo da amicizia con la sua famiglia. Chiese alla mamma di addobbare con dei fiori la cameretta, di corredare il lettino con le migliori lenzuola ricamate e di porre sul tavolino una tovaglietta linda. Tutto doveva essere molto bello anche se la famiglia era molto povera. Lui stesso dal suo letto, come da un altare, lesse la formula di consacrazione: era tutto raggiante di gioia, e la sua commozione era così intensa che quasi non poteva proseguire con la lettura.
Arriviamo, intanto, all’agosto del 1933. Su consiglio dei medici, venne portato ad Abano Terme, in provincia di Padova, per essere sottoposto alla cura dei fanghi. Prima, però, volle recarsi nella vicina basilica di Sant’Antonio. La mamma riuscì a portarlo in braccio a visitare, ad uno ad uno, tutti gli altari; dopo che ebbe sostato a lungo davanti alla tomba del grande taumaturgo francescano, la stessa osò chiedergli se avesse domandato la grazia della guarigione, ed egli rispose con franchezza: «Ho chiesto soltanto di fare in tutto e sempre la santa volontà di Dio»25. La cura di Abano risultò molto penosa: doveva essere ricoperto di fango dai piedi fino alla gola; egli non manifestò mai il minimo lamento, tanto che i medici e gli infermieri rimasero stupiti dalla sua eroica pazienza, tenendo conto anche della sua giovane età.
La mamma meditava tutto nel suo cuore
Nel 1932 fu portato a Genova per tentare una nuova cura. In quella città ebbe la possibilità di conoscere la madre di Livio Zanotti (1917-1930), un giovinetto che ebbe molti tratti di somiglianza con lui, la quale gli donò la biografia del figlio.

Marzo 1936. Aldo rientra effettivamente a Trieste, da cui non uscirà mai più. Nella sua cameretta di via Piccardi n. 27, nonostante tutte le varie cure effettuate in vari posti del nord Italia, le sofferenze si aggravano di giorno in giorno e tutto il suo piccolo corpo entra in uno spasimo: a mala pena e con fatica poteva aprire la bocca per prendere cibo. Eppure, anche così, quella piccola bocca sapeva esprimere un sorriso angelico e pronunciare parole di pace a chi gli stava attorno. Quella vera pace che, di solito, promana da chi soffre e da chi ha un cuore umile. Nel mese di maggio di quell’anno ebbe la forza e il coraggio di scrivere di proprio pugno una Lettera a Benito Mussolini da cui era già stato beneficiato tre anni prima con una elargizione di 300 lire. Questa volta lo supplicò di regalargli una carrozzina per muoversi un pochino e poter uscire di casa. Con grande gioia per Aldo, nell’agosto successivo il suo desiderio fu esaudito. La sua prima visita fu alla chiesa parrocchiale, dove volle compiere una sosta piuttosto lunga dinnanzi alla riproduzione della grotta di Lourdes e dove la mamma vide scendergli dagli occhi qualche lacrima. In chiesa ebbe pure il primo incontro con il buon parroco don Nicolò Gligo il quale gli promise che lui stesso o il suo cooperatore don Bruno Borsatti sarebbero andati a trovarlo a casa. E con loro, progressivamente, gli fecero visita anche religiose, religiosi, altri sacerdoti (tra cui si ricorda don Antonio Dessanti) e il vescovo della città.
Con il mese di febbraio del 1937 Aldo non poté più alzarsi dal letto. Lo si mise sul fianco destro e in questa posizione restò per tre lunghissimi anni, immobile. Nel settembre del 1938 la malattia prese anche la sua vista. Quando la notte tremenda si annunciò ai suoi occhi tanto belli e luminosi, quando giorno per giorno “vide” dileguarsi il grande dono della vista, ebbe il coraggio di confidarsi così con la mamma: «Mi meraviglio io stesso come mi sento il coraggio e la forza di rinunciare a questo bel dono che ci ha fatto il Signore; e di farlo senza rimpianto; si vede che non è la mia bravura, ma quella di Gesù che è in me. Vedi mamma, che si può essere felici anche senza vedere le bellezze terrene! Io sono certo che vedrò tutte le bellezze del Paradiso». Le manifestò il desiderio di poter avere un incontro anche con il vescovo di Trieste mons. Antonio Santin; venne esaudito e il vescovo lo venne a trovare il 18 gennaio 1939, alle tre pomeridiane. Aldo non poté scorgere il suo volto, essendo pressoché cieco. Eppure, dalla testimonianza del vescovo, come pure da quelle di tutti coloro che gli facevano visita, risulta come dal letto di Aldo salisse serenità, gioia, luce e conforto: «Si sentiva il bisogno di stare lì, il dolore era congedarsene».
Dio è certezza: l’ultimo addio
Anche Aldo si pose, come ciascuno di noi, l’interrogativo circa la sofferenza assegnata proprio agli innocenti e ai piccoli. Nella fede egli era convinto che Dio permette a un’anima pura, ma credente, di soffrire per i propri fratelli perché un non credente rischierebbe di autocondannarsi nella disperazione e perdere per sempre la vita eterna. Un credente, invece, sa che nonostante la croce Gesù non lo abbandona e che, a motivo della dottrina della reversibilità dei meriti, il sofferente aiuta e intercede per la salvezza di coloro che si amano. Poco prima che terminassero i suoi giorni qui sulla terra, Aldo volle confidarsi a lungo con il sacerdote gesuita che lo seguì teneramente da vicino e che fu, poi, il suo primo biografo, padre Giuseppe Petazzi. Gli disse, riferendosi a Gesù: «Sento proprio che è così – mi rispondeva con accento inimitabile –; e quanto più io soffro, tanto più sento che è Lui che soffre in me; questa la ragione per cui non vorrei vivere senza soffrire». Questo era il “mistero” di Aldo, mentre si avvicinava l’incontro con “sorella morte”, che avvenne il 25 gennaio 1940.

Verso le tre della notte, sentendosi prossimo alla fine, fece chiamare il parroco per poter ricevere l’unzione degli infermi e il viatico. Mentre lo attendeva, quasi a confermare un voto fatto, nominò, ad una ad una, tutte le persone a cui voleva mandare il suo ultimo saluto, assicurando che avrebbe pregato tanto per loro dal paradiso e raccomandandosi egli pure alle loro preghiere. Poi, quasi spinto da forza sovrumana, alzò il capo che da tre anni non poteva muovere e disse a voce alta e risoluta: «Pregate, abbiate fede! Pregate. Dio è certezza!». Soffriva molto e, a questa sofferenza, si aggiungeva quella di vedere la propria mamma piangere. Arrivato il parroco, Aldo riuscì a confessarsi e a ricevere Gesù eucaristia per l’ultima volta. Poi continuò le sue preghiere fino all’ultimo. E baciò il crocifisso che il sacerdote gli porse. Qualche minuto prima di spirare, aprì i suoi grandi occhi celesti e rivolgendo il suo sguardo verso l’Alto, “lo” fissò in un punto: il suo volto si illuminò di un sorriso celestiale, mentre gli spuntò una lacrima di gioia sulla guancia. Erano circa le ore 8 del mattino del 25 gennaio 1940, in una poverissima cameretta di via Piccardi, n. 27 in Trieste, in quel momento congiunta all’eternità del Cielo.
I funerali si svolsero in modo solenne nella chiesa parrocchiale di San Vincenzo de’ Paoli il giorno 27 successivo alle ore tre pomeridiane, con un grande e commosso concorso di popolo, sacerdoti, religiosi, religiose e tanti fanciulli. Inumato dapprima in un loculo del cimitero di Sant’Anna in Trieste, il suo corpo venne successivamente traslato in un monumento voluto dall’amministrazione comunale della città nel decimo anniversario della morte, il 25 gennaio 1950, anche a motivo dei numerosi fedeli che colà si recavano in pellegrinaggio, come pure alla sua cameretta in via Piccardi, n. 27. Negli anni successivi venne fondato pure il «Comitato Cittadino Aldo Marchetti». La mamma morì, rimanendo sempre vedova, a Trieste il 17 gennaio 1964, ventiquattro anni dopo la salita al Cielo di Aldo, ammalatasi lei pure per una sclerosi a placche. È sepolta nello stesso monumento funebre, accanto al proprio figlio.
Aldo aveva letto molto prima di perdere la vista, ma da nessun libro di carta aveva tratto quella frase: «Dio è certezza». Scriveva, anche, finché gli fu possibile. Due anni prima di salire al Cielo vergò alcune righe che, adesso, sembrano il “lascito” della sua giovane e breve esistenza. Scrisse così: «Pensate: ho poco più di 18 anni e da tanti soffro; sono maturo al dolore; la vita passata non m’ha dato nulla, la futura vita terrena mi promette dolore e morte. Morte: ecco il punto sommo, verso il quale aspiro, mentre chiedo a Dio di darmi la forza di amare sempre più queste sofferenze, e fare di esse la perfezione del completo abbandono alla Divina Volontà. Quanto deve essere immenso Iddio se così grandemente si esprime nelle sue creature». Aveva ragione Aldo: quando si soffre è Gesù – uomo e Dio – che soffre in noi, come fosse un Gesù abbandonato da non abbandonare. È una certezza che, dopo, risorgeremo con Lui. Questo ci ha insegnato la luminosa lampada del Getsemani che è stato Aldo Marchetti, figlio e perla della Chiesa triestina.
Gianluigi Pasquale ofm capp