Sulla scia della 62esima Giornata mondiale di preghiera per le Vocazioni che ha per tema “in qualunque genere di vita, non si vive senza queste tre propensioni dell’anima: credere, sperare, amare” tratto dalla Bolla di indizione del Giubileo Spes non confundit, prosegue la serie di interviste a sacerdoti diocesani, religiose e religiosi che operano in Diocesi e che, quest’anno, celebrano degli anniversari importanti di ordinazione sacerdotale o di professione religiosa.
Incontriamo oggi don Carlo Gamberoni, originario del Varesotto, 77 anni, ordinato sacerdote a Trieste nella Cattedrale di San Giusto il 28 giugno del 1975 per l’imposizione delle mani dell’Arcivescovo monsignor Antonio Santin. È attualmente aiuto alla Parrocchia di San Giacomo Apostolo. Quest’anno per lui ricorre il 50° dell’ordinazione ordinazione sacerdotale.
Cinquant’anni di sacerdozio sono un traguardo importante. Parlano di una vita fedele e operosa al servizio della comunità cristiana, in risposta costante a una chiamata che chiede di essere nutrita e confermata ogni giorno. Non è questo il mio primo colloquio con don Carlo Gamberoni: lo avevo incontrato qualche anno fa a Porzûs quando, per una testata nazionale, stavo preparando un servizio sul Santuario della “Madonna de Sesule” di cui lui è stato scopritore, studioso appassionato e anche entusiasta divulgatore. Ho ritrovato nella sua voce la stessa freschezza nel raccontarsi, segno che il tempo che passa non scalfisce la sua essenza più profonda. E in un tempo in cui tutto sembra passare velocemente per essere dimenticato un attimo dopo, mi sembra un aspetto prezioso, che, prima di lasciare spazio all’intervista, pare importante portare all’attenzione dei lettori.
Torniamo all’inizio di tutto. Si ricorda a quando risale la sua vocazione al sacerdozio e se c’è un momento o un luogo che porta nel cuore?
Quest’anno ho compiuto 77 anni a gennaio, celebro ora il cinquantesimo di Messa… ma in pratica quest’anno cade anche il settantesimo della chiamata vocazionale. Infatti, io a 7 anni facevo il chierichetto nella mia parrocchia perché il parroco mi aveva chiamato a fare questo servizio. Ero quello più assiduo perché abitavo anche vicino alla chiesa e devo dire che mi piaceva quello che vivevo lì. La gente mi vedeva e notava che ero sempre presente e assiduo nel mio impegno e proprio una domenica pomeriggio, non ricordo con precisione la data, dopo la Messa andai sul piazzale e alcune signore mi dissero “Ah, tu sei il nuovo chierichetto! Cosa farai da grande?” e io diedi questa risposta: “Quando sarò grande andrò nei collegi dove fanno i preti”. Dissi così perché io la parola “Seminario” non la conoscevo, nessuno mi aveva detto che i preti hanno un collegio e si chiama seminario.
Una chiamata molto precoce, quindi…
Avevo solo sette anni, sì, ma posso dire che già da prima mi frullava sempre nella testa questa idea. Ero affascinato dalle cerimonie in chiesa, c’era il vecchio parroco che era fantastico nel modo di predicare, nel modo di fare, di trattare la gente… all’epoca la chiesa per noi bambini era un contesto che faceva sognare perché il nostro era un paese di contadini semplici. L’unico diversivo era la chiesa, le cerimonie, le processioni, queste cose qui… non c’era la televisione, gli sport nemmeno… Giocavamo così in cortile, ecco. Quindi la chiamata è arrivata proprio settant’anni fa in modo chiaro e ho espresso questo desiderio. Che poi è andato avanti
Di dove è originario?
Io vengo dal Varesotto, nativo di Comerio, e poi sono cresciuto nel paese vicino, Barasso, sulla strada che da Varese porta al stupendo Lago Maggiore, più o meno a metà percorso. Una bella zona, piena di verde, così. Adesso è tutta cambiata, sa?… Sono andato a casa anni fa, i paesi si sono ingranditi e sono completamente cambiati. Non ci sono più le parrocchie: anche lì hanno fatto le zone pastorali, quindi è cambiato un po’ tutto.
Quindi sente questa chiamata a sette anni, poi fa la scuola elementare e…
Inizio la scuola elementare, dopo vado in seminario vicino a Varese e incomincio la scuola media, poi il ginnasio, poi il liceo. Quando dovevo iniziare Teologia, avendo conosciuto l’allora segretario di monsignor Antonio Santin, don Ettore Malnati, anche lui originario delle mie zone, mi aveva detto che a Trieste c’era bisogno di preti e mi ha invitato a venire lì per studiare e così mi sono trasferito.
Come ricorda gli anni del Seminario?
A quei tempi il seminario era strutturato molto bene. Eravamo in tanti, pensi, nella prima media, avevamo cinque sezioni di 30 alunni ciascuna. Siamo partiti quindi in 150 in prima media e al sacerdozio siamo arrivati solo in 15… Ricordo il seminario ben strutturato dal punto di vista scolastico, dal punto di vista sportivo. A metà mattina e al pomeriggio c’erano dei tempi vuoti per la ricreazione. C’era il pallone, si giocava, ecco, e in primavera c’erano anche le gare sportive a cui, chi lo desiderava, poteva partecipare. Io mi tiravo abbastanza indietro, a dire il vero, però facevo un po’ di sport. Ricordo poi che c’era la camminata ogni settimana, al giovedì, perché il Seminario era lì circondato da tanti boschi così. Ci facevano fare belle escursioni. Era una vita molto ben organizzata, ecco… senza tempo da perdere. E anche se la disciplina era abbastanza rigida… posso dire che non la si avvertiva come un peso, sa? No, no, era una disciplina che serviva per maturare interiormente, capivamo che era importante per la nostra vita. Anche i pranzi erano ben organizzati e serviti su tavole lunghe… ho dei buoni ricordi di questo periodo.
E il seminario esattamente dove si trovava?
Ce n’erano due. Uno più piccolo a Masnago, proprio vicino a Varese, molto bello, che poi è stato venduto e adesso non esiste più. E l’altro, quello grandioso, a Venegono che esiste ancora e che ha al suo interno il liceo e la teologia.
Un Seminario molto famoso, con una biblioteca stupenda, che è dedicato a Pio XI, il Papa Lombardo, Papa Ratti, quello che ha firmato i Patti Lateranensi. Un Papa molto coraggioso.
Quindi una bella organizzazione, un bell’ambiente, un bell’ambiente naturale, insomma, in mezzo alla natura…
In mezzo al verde e fuori dal paese. E meno male perché eravamo in tantissimi e quando uscivamo a giocare era inevitabile gridare e fare confusione. Guai se fossimo stati in mezzo alle case! C’erano i campi da calcio che davano verso il bosco, così, se anche gridavamo, nessuno ci sentiva o veniva disturbato. Bello. Sono passato lì anni fa e ho visto che adesso intorno hanno costruito case dappertutto. Ai miei tempi, invece, era tutto libero. Una zona molto bella.
E degli insegnanti che ha avuto, c’è stato qualcuno che l’ha colpita in particolare?
No, qualcuno in particolare direi di no. Erano molto bravi quelli di greco e latino. Poi, devo dirle che io fin dall’inizio ero portato per essere un prete popolare, che sta in mezzo alla gente, ecco… Mentre alcuni miei amici, dopo il Seminario hanno proseguito gli studi a Roma in diverse facoltà, io mi sono sempre sentito portato, sì allo studio, ma a una vita più pratica, in mezzo alla gente. Ho sempre avuto come modello il mio parroco di quando ero bambino e i parroci vicini, tutti preti popolari. Predicavano, si aggiornavano, ma poi erano sempre a contatto con la gente. Mentre tra i miei compagni c’erano quelli che, durante la ricreazione, portavano avanti le discussioni, gli argomenti e così. Io li ascoltavo, ma non li seguivo. Quindi ero portato proprio alle cose più pratiche e semplici.
Il passaggio a Trieste, come l’ha vissuto?
Quando don Ettore mi ha proposto di venire qui, all’inizio l’ho presa un po’ così senza pensarci su bene. Ho accettato e forse pensavo che fosse più facile. Dopo, andando avanti, ho visto che era abbastanza difficile inserirmi ed entrare nella mentalità della città. In paese da noi erano tutti i cattolici, mentre venendo qua ho iniziato a sentire che c’è una Sinagoga, c’è una comunità ortodossa orientale, c’è un’altra comunità ortodossa serba, ci sono i protestanti… Leggevo queste cose sui libri di storia, ma pensavo fossero cose lontane da me. Invece a Trieste ho visto concretamente che nel cristianesimo esistono anche altre comunità. Devo dire che è stata una cosa che mi ha scombussolato un po’… E poi ero abituato alla vita di paese, in cui tutti fanno le stesse cose e la pensano più o meno in modo conforme. In città a Trieste è tutto diverso. Ho fatto fatica ad entrare nella storia di Trieste, con il dramma della guerra, la Risiera… e ho dovuto entrare in una prospettiva da me molto lontana. Non è stato facile. Anche adesso, dopo che ho fatto per tanti anni il parroco in diverse parrocchie sento di non essere ancora entrato bene nella mentalità e di non aver recepito alcune cose di Trieste. Il cristianesimo qui mi ha aperto altri orizzonti.
Arriviamo al giorno dell’ordinazione: lei è stato ordinato sacerdote il 28 giugno del 1975.
Il 28 giugno del ‘75. Sì, nel giorno in cui all’arcivescovo Santin era stato comunicato che avrebbe terminato ufficialmente il suo incarico. In realtà era già preparato a questo perché aveva quasi 80 anni, ma quando aveva compiuto 75 anni gli era stato chiesto di restare perché era ancora in gamba e molto bravo. La Santa Sede gli aveva chiesto di rimanere finché non fosse stato sistemato il Trattato di Osimo… il 28 giugno verso mezzogiorno ricevette la comunicazione e proprio quella sera erano previste le ordinazioni sacerdotali e diaconali. Io, in pratica, sono l’ultimo sacerdote da lui ordinato. Quindi è stato un giorno davvero particolare.
Cosa ricorda di quella giornata?
La ricordo come una giornata un po’ movimentata, soprattutto a mezzogiorno, perché quando è arrivata la telefonata da Roma, il rettore del Seminario, monsignor Ravignani, pensava di dover sospendere tutto. Si sono poi messi subito in contatto con l’arcivescovo di Gorizia, monsignor Cocolin, il quale sarebbe subentrato come reggente della diocesi e disse che per quella settimana monsignor Santin avrebbe dovuto continuare a fare tutto ciò che era già previsto e che aveva la sua autorizzazione. Così si è proseguita l’organizzazione della celebrazione di ordinazione. E dico, grazie a Dio. Perché mentre arrivò quella telefonata era già in viaggio verso Trieste un pullman proveniente da Varese con a bordo i miei familiari e conoscenti che dovevano partecipare alla cerimonia. La celebrazione fu molto suggestiva, anche se non c’era tantissima gente. Oltre ai miei parenti, c’erano i fedeli di Sottolongera e altri fedeli triestini. Una cerimonia molto semplice, non con certe coreografie che si fanno oggi. Molto semplice, ma molto sentita. Tra i presenti, proprio perché ci fu la notizia della conclusione dell’episcopato di monsignor Santin, ci furono anche tanti istriani che erano molto legati e grati all’Arcivescovo. È stato un bravissimo arcivescovo, ha guidato tutto il suo popolo dopo il dramma dell’Esodo.
Di quella celebrazione, ricorda qualche parola in particolare di monsignor Santin che poi l’ha guidata nel suo ministero?
Ho questo ricordo: monsignor Santin non era particolarmente agitato per la telefonata ricevuta dalla Santa Sede perché era già preparato alla possibilità di terminare il suo incarico. Quindi lui ha pronunciato la predica che aveva già preparato e che parlava della realtà del sacerdote oggi: essere sacerdote per il proprio popolo, la propria comunità, la propria gente. Anche lui, come sacerdote, è sempre stato vicino alla sua gente. E poi ha ricordato il compito principale del sacerdote che è quello di rendere presente il Signore: senza di lui, la sua presenza, la sua consacrazione, l’Eucarestia non c’è. Ma non perché il sacerdote deve stare al di sopra della gente… il sacerdote deve stare con la gente, vicino alla gente, a servizio del popolo rendendo presente il Signore. Ricordo che alla fine della celebrazione gli chiesi di poter scattare delle foto e lui si prestò volentieri. Anche questo un bel ricordo. Nei giorni seguenti andai a trovarlo in udienza per ringraziarlo: lo trovai, come in altre occasioni, sempre molto disponibile. Mi consigliò di coltivare sempre gli studi, di rimanere aggiornato, di abbonarmi a qualche rivista… e poi mi ringraziò perché venne a sapere che il giorno della mia prima Messa a Sottolongera, celebrai al mattino in italiano e alla sera celebrai, invece, in lingua slovena, insieme alla gente. Fu la prima volta in cui a Trieste, dopo il Concilio Vaticano II, un sacerdote novello celebrava una messa al mattino in italiano e alla sera in sloveno. Questa cosa colpì molto l’Arcivescovo che mi incoraggio a studiare la lingua e a mettermi al servizio anche di questa comunità. Questo suo riscontro fu molto bello per me.
Veniamo al tema che quest’anno è stato scelto per la giornata mondiale di preghiera per le vocazioni. Nel messaggio che Papa Francesco ci ha lasciato vengono evidenziati tre verbi, che sono credere, amare e sperare.
Rispetto alla sua storia personale, al suo ministero, a quello che sono stati questi 50 anni di sacerdozio, questi 70 anni di vocazione, come coniugherebbe questi verbi?
Sono verbi che risaltano verità e che devono andare a braccetto. Ecco, non si possono dividere. Il prete è l’uomo del credere, è chiaro. Se un prete viene meno nella fede, non ha più significato. Nella sua vita perde riferimento, perde i valori, perde il significato. Quindi la fede va coltivata con la preghiera e anche con l’aggiornamento tenendosi al passo soprattutto con il Magistero del Papa.
Il secondo verbo è amare. È chiaro che il sacerdote è quello che deve essere al di sopra delle parti. Che deve amare dal punto di vista del Signore. Io nella mia vita ho incontrato anche dei contrasti, delle difficoltà. Ma ho perdonato e ringrazio. Mi viene spontanea una preghiera: “Signore in questo cinquantesimo anniversario ti ringrazio. Ti ringrazio di tutta la vita che ho avuto, dalla mia nascita, la famiglia di origine, il luogo di origine, gli anni di Seminario, gli anni vissuti nelle varie parrocchie. Ti dico solo grazie. Ti dico grazie anche per le difficoltà. Se c’è stato qualcosa di negativo è perché tu l’hai permesso. E anche questo mi ha aiutato a crescere. E insieme a me anche la comunità”
E poi l’ultimo verbo: sperare. Se sono andato avanti come persona e se siamo andati avanti come comunità è perché la porta della speranza è sempre rimasta aperta. Nonostante alcuni momenti difficili in cui in parrocchia arrivavano anche delle lettere anonime che insinuavano che non stessi promuovendo a sufficienza la catechesi… eppure avevamo tre centri d’ascolto attivi. Questa è stata un’occasione per confrontarmi con la comunità e per capire insieme come proseguire il cammino. Siamo cresciuti tutti. Queste situazioni ci fanno vedere che abbiamo in mano tanti mazzi di rose bellissime in mano, ma ogni tanto sotto c’è qualche spina. E dobbiamo stare attenti, quando li maneggiamo, a non stringere qualche spina…
Ad un certo punto Papa Francesco nel suo messaggio diceva così: «La vocazione non è mai un tesoro che resta chiuso nel cuore, ma cresce e si rafforza nella comunità che crede, ama e spera. E poiché nessuno può rispondere da solo alla chiamata di Dio, tutti abbiamo necessità della preghiera, del sostegno dei fratelli e delle sorelle». Ecco, le chiedo allora don Carlo, quanto è stata importante per lei la comunità nel suo cammino sacerdotale e quanto è stato importante anche il sostegno della preghiera, della comunità o comunque delle persone che ha incontrato?
Questa è una domanda molto molto bella. Prima di tutto c’è stata sempre la mia preghiera. Poi, avendo cambiato tanti posti tra Seminario e parrocchie, ho avuto contatto con varie persone. Portavo la comunione agli ammalati il primo venerdì del mese. Ed è stato molto bello che gli ammalati mi dicessero “io prego per lei, perché so che il suo compito non è facile, ma lei si ricordi anche di me”.
Ovunque io sia stato, ovunque mi sia trovato, ho sempre trovato gente che mi prometteva la propria preghiera. Non solo la propria preghiera, ma la propria preghiera unita alla sofferenza. Questo è stato molto bello.
Questa della preghiera è stata una realtà sempre costante. Le persone che incontravo avevano la spiritualità di una volta… formate proprio per il primo venerdì del mese, per il primo sabato… Ecco, quella della preghiera era un’assicurazione meravigliosa. Nella mia vita ho toccato con mano quanto sia valida la preghiera e tutto ciò che ne consegue. Anche la pace e le vocazioni.
Se dovesse consigliare a un giovane che sente la vocazione e magari ha un dubbio cosa gli direbbe?
Se un giovane o una giovane sente la vocazione, io dico che la deve seguire perché una vocazione viene da Dio e Dio vuole solo il nostro bene. E oltre al nostro “sì” abbiamo bisogno anche della preghiera e dell’incoraggiamento della gente… non di parole che insinuino che la vocazione non durerà a lungo. A me è successo che lo dicessero di me…
Se il Signore chiama, la strada si apre davanti ai nostri passi. Al contrario, e lo dico perché lo vedo, se non si segue la strada che il Signore ci indica, si vive da infelici: sul volto delle persone si vede un velo che dice che è mancato qualcosa nella loro vita. Ed è importante dirlo ai giovani! Gli ostacoli che si presentano – che fanno parte del cammino – vanno superati. Se diciamo il nostro “sì”, il Signore sistema tutto ciò che serve. Io, per esempio, vengo da una famiglia povera e posso assicurarle che in tanti anni non mi è mai mancato nulla. Se un giovane o una giovane dovesse avere qualche dubbio, il mio invito è a confrontarsi con un padre o una madre spirituale, con chi, insomma, sa leggere nel cuore. Quando il Signore chiama bisogna buttarsi a capofitto! La gioia e la realizzazione sono davvero assicurate.
A distanza di cinquant’anni dalla sua ordinazione, di settanta dalla vocazione, alla luce di tutti gli incontri che ha avuto e delle esperienze che ha vissuto può dire che ne è valsa la pena?
Ma senz’altro! Se penso a tutto ciò che ho potuto fare negli anni nelle parrocchie – campiscuola estivi per ragazzi e anche anziani, gite, pellegrinaggi, escursioni, incontri ecc. – da Longera a Servola, da a Sant’Antonio Vecchio a San Giacomo… dico che se non mi fossi fatto sacerdote tutto questo non ci sarebbe stato. Io sono davvero felice di tutto questo. Tenga conto che in tutti questi anni quando dovevo affrontare viaggi o altri impegni programmati per la parrocchia sono sempre stato bene. E se il Signore mi ha dato la salute vuol dire che era la sua volontà che io potessi realizzare tutto questo. E cosa importantissima per me: se non avessi accolto la chiamata del Signore, non ci sarebbe stato il Santuario di Porzûs che ho scoperto e sul quale ho potuto scrivere vari libri per metterne in luce la realtà e l’importanza.
A cura di Luisa Pozzar
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