Il Vangelo vissuto come presenza e ascolto. Nell’umiltà

In occasione del Giubileo della Consolazione, intervista a don Tullio Proserpio, cappellano dell'Istituto dei Tumori di Milano

Da 22 anni don Tullio Proserpio vive e lavora all’interno dell’Istituto Nazionale dei Tumori Irccs di Milano. La sua missione non è solo spirituale, ma profondamente umana: accompagnare chi soffre, chi lotta, chi si interroga sul senso della propria esistenza. In questa intervista racconta cosa significhi consolare, ascoltare e camminare accanto a chi affronta una grave malattia.

Don Tullio, che cosa significa consolare in un luogo dove la sofferenza è quotidiana e spesso, purtroppo, senza lieto fine?

Consolare, per me, significa togliere dalla solitudine la persona che vive una situazione di malattia, paura, angoscia e disperazione. Non è una formula teologica, né una risposta preconfezionata. È diventare presenza, volto, voce che accompagna. La consolazione è tempo, ascolto, anche rispetto dei silenzi. È insomma un camminare accanto, senza la pretesa di risolvere, ma con il desiderio di esserci.

Qual è il ruolo della relazione nella speranza dei pazienti?

Da uno studio sulla speranza condotto qualche anno fa qui in Istituto è emerso che

ciò che genera speranza non sono le parole, ma le buone relazioni.

Quelle che aiutano a continuare a lottare, a sperare, a vivere anche nei momenti più duri. La relazione autentica è ciò che permette di attraversare la malattia senza sentirsi abbandonati.

Lei parla spesso del divario tra formazione teologica e accompagnamento concreto. Che cosa intende?

Per noi cappellani la preparazione teologica è fondamentale, ma non basta. Nella realtà, io non incontro teorie, incontro persone. E le persone non chiedono concetti, ma presenza. Spesso, nella formazione, manca l’esperienza sul campo. Ci preparano bene dal punto di vista teorico, ma quando ci troviamo davanti al dolore vero, le risposte standard non funzionano. Ricordo il padre di un ragazzo morto a 24 anni. Quando entrai nella stanza mi avvicinò e mi disse:

“Esista o meno il paradiso, non me ne frega niente”.

In quel momento, la mia “carta migliore” era bruciata. E ho capito che dovevo solo stare, ascoltare, condividere.

Qual è il rischio per chi accompagna spiritualmente i malati?

Quello di una sorta di “arroganza pastorale”. Pensare di dover portare a tutti i costi a casa un risultato: una conversione, una risposta. Ma non è questo il compito. Il nostro compito è esserci, con umiltà. E accettare che

anche l’assenza di fede possa essere un cammino custodito dal Signore esattamente come il mio.

La consolazione non è convincere, è condividere.

(Foto Siciliani-Gennari/SIR)

Come si impara ad accompagnare?

Con il tempo, con gli errori, con la pazienza, e soprattutto con l’umiltà. Ancora oggi, dopo tanti anni, mi accorgo talvolta di sbagliare. Accompagnare significa alternare parole e silenzi, testare con gradualità la disponibilità dell’altro. A volte, un caffè alla macchinetta con i genitori di Pediatria diventa il momento giusto per avviare un dialogo.

 

 

Non si tratta di fare grandi discorsi, ma di essere lì, quando serve.

Che domande pongono i pazienti in condizioni gravi?

Domande profonde, vere, spesso senza risposta. “Che senso ha continuare a soffrire?”, “Non sarebbe meglio se andassi in Svizzera a morire?”, “Chi penserà ai miei figli?”,

“Dov’è il buon Dio di cui lei mi parla, perché non mi aiuta?”.

Alcuni continuano a fidarsi del Signore, anche se a fatica. Altri non trovano un senso. E in quei momenti, frasi come “offri la tua sofferenza al Signore” suonano come bestemmie che non aiutano, e tradiscono lo spirito del Vangelo. Le persone ammalate non sono stupide, sanno che non c’è una risposta. Ma cercano qualcuno che resti loro accanto.

Quanto sono importanti le cure palliative e la terapia del dolore?

Le cure palliative non sono solo per il fine vita. Vanno attivate fin dalla diagnosi, come raccomanda l’Oms, insieme alle terapie e ai trattamenti. E la morfina, quando necessaria, deve essere usata per togliere il dolore inutile. Pio XII, già nel 1957 in un discorso ai medici rianimatori, parlava della liceità degli oppiacei, anche fino alla soppressione della coscienza, per evitare dolori insopportabili. La Chiesa, contrariamente a quanto pensi qualcuno, non è affatto a favore del dolore, ma a favore del sollievo dalle sofferenze inutili.

Da 22 anni in un ospedale laico come l’Istituto Tumori, dove oltretutto abita, come vive il suo ruolo?

Con grande libertà e collaborazione. Ho rapporti di stima con primari e responsabili. Intervengo anche nella ricerca, sempre mettendo al centro la persona. A volte sollecito i medici a usare la morfina, quando vedo sofferenze evitabili. Il mio ruolo non è solo spirituale, ma umano. Del resto, l’ospedale non è solo la mia “parrocchia”; è anche la mia casa. Vivo qui, ne condivido quotidianità, gioie e dolori. Non sono un “esterno”, sono parte della comunità. E questo fa la differenza.

In questi 22 anni c’è una storia che l’ha particolarmente colpita?

Quella di Valeria, una ragazza di 17 anni, incontrata nel 2013 poco dopo il suo ultimo viaggio a Roma durante il quale riuscì a vedere Papa Francesco. Morì a casa, dicendo: “Muoio con il sorriso pensando al sorriso del Papa”. Era serena, lucida, dopo un periodo di profonda disperazione. Ricevette da me l’unzione degli infermi su insistenza della madre e poi disse:

“Adesso ho le valigie pronte”.

La chiamo la mia santina Valeria. Sono ancora in contatto con la famiglia: ho battezzato il figlio della sorella.

Per concludere: che significato ha per lei il Giubileo della consolazione che si celebra oggi 15 settembre?

Secondo me, nelle intenzioni di Papa Francesco questo Giubileo specifico può costituire un richiamo, oltre che spirituale, umano e sociale. In una società egocentrica e fortemente divisa, all’interno della quale ognuno tende a pensare solo a sé stesso, penso che l’esperienza della malattia ci ricordi che abbiamo bisogno l’uno dell’altro. La consolazione è un bisogno umano, non solo religioso. È trovare qualcuno con cui proseguire il cammino, specialmente quando i modelli sociali di successo, bellezza, potere, ricchezza non reggono di fronte alla realtà della sofferenza.

La consolazione è farsi compagno di strada con intelligenza, e può essere anche una via per testimoniare il Vangelo, senza però imporre nulla.

 

Giovanna Pasqualin Traversa (SIR)

 

Foto in evidenza: don Tullio Proserpio/SIR

9min22


Chi siamo

Portale di informazione online della Diocesi di Trieste

Iscr. al Registro della Stampa del Tribunale di Trieste
n.4/2022-3500/2022 V.G. dd.19.10.2022

Diocesi di Trieste iscritta al ROC nr. 39777


CONTATTI