Sfidati e sfidanti: educare oggi. E gli insegnanti?

Il 19 settembre il Convegno Uciim, in Sala Tessitori a Trieste, ha affrontato l'attualità delle sfide presenti nella scuola di oggi

La Sala Tessitori è al completo, il tema è molto sentito, perché serpeggia da anni nelle scuole, senza tuttavia che si alzino voci forti e autorevoli in tale direzione. La “sfida” ha a che fare con la parola “fiducia”, con la quale condivide alcune lettere: quando si perde fiducia nell’identità dell’altro lo si provoca per capire chi è o chi è diventato.

L’insegnante, da parte sua, è sottoposto a molteplici sollecitazioni: tanti strumenti, tecnologici e non, sono stati pensati come facilitatori, ma si trasformano facilmente in un peso quando il carico diventa sovraccarico; la collegialità, valore indiscutibile, si traduce spesso in un moltiplicarsi di riunioni improduttive; la relazione con le famiglie è fonte a volte di gratificazione, altre di drammatiche criticità; le griglie di valutazione volevano por fine al soggettivismo imperante nel dare i voti, eppure in alcuni casi diventano delle gabbie che impediscono di arrivare al cuore della persona dello studente.

In poche parole, la scuola oggi è una delle poche strutture ancora rigide in un mondo dove tutto è fluido. Per non parlare poi degli obiettivi: la scuola lavora su tempi lunghi, in contrasto con il “tutto, subito e senza fatica”, puntando sulla formazione e non sull’utilità immediata. Nell’opinione pubblica, inoltre, tutti sono stati studenti e pensano di poter dire la loro sulla scuola, credendo di sapere tutto; presunzione a parte, non si può non rilevare che i nonni, spesso, si rifanno a una scuola di 60 anni fa, le cui strategie sarebbero del tutto inefficaci oggi. Ma non manca il positivo: tutti si ricordano dei loro insegnanti, proprio perché l’ “insegnante “lascia il segno”; vale ancora il vecchio proverbio africano “per educare un bambino ci vuole un villaggio”, eppure la scuola oggi viene lasciata sola e caricata di tutto. La via però esiste e ha a che fare con il prendersi cura.

Nel suo intervento la professoressa Matriz ha sottolineato come l’educazione abbia a che fare con la relazione: l’una non può esistere senza l’altra e anche il rapporto col sapere dipende dalla cura. Questa relazione, però, porta a contatto due mondi che sono come delle bolle: al primo tocco rischiano di scoppiare, per cui ci vuole la delicatezza della sollecitazione senza urti, ma con la capacità di inquietare, di creare domande, di provocare risposte; una sorta di equilibrio pur nell’instabilità. Non si può prescindere, tuttavia, da alcune premesse antropologiche. Innanzitutto si parte dalla persona e dalle sue proprietà: ogni bambino è portatore di un’unicità irripetibile, tuttavia vive con la madre la sua prima esperienza di comunità, dalla quale poi si dovrà staccare. “In-segnare”, lasciando il segno nella sua unicità, ed “e-ducere”, estraendo quello che già c’è, si intrecciano.

Tutto questo percorso, però, costa fatica, infatti si sente tanto parlare di “stress”, di cui esistono due tipi: uno positivo, che dà energia e slancio vitale verso qualcosa di bello, e uno negativo, dove gli stressor producono danni. Utili sono i suggerimenti ricavabili da “10 passi per il benessere dell’insegnante”, dove si suggerisce al docente di identificare i problemi, parlarne con qualcuno, coltivare rispetto per se stesso, fare qualcosa che piace e gratifica e così via. E se il docente non può fare tutto da solo, la comunità deve diventare agente di “caring”: e da qui l’importanza di un PTOF (Progetto Triennale per l’Offerta Formativa) scritto in modo più mirato e meno tecnico-burocratico, con spazi per guardare alle disposizioni d’animo e non solo agli obiettivi da raggiungere.

L’intervento della professoressa Luisa Onofrio, “La cura di chi educa, la sfida silenziosa della scuola” si è focalizzato sulla difficoltà di gestire la fragilità e per i ragazzi – sottoposti una competitività sempre più spinta – e per gli adulti. Il benessere del ragazzo, infatti, è strettamente collegato alla qualità delle sue relazioni con gli adulti di riferimento. Alla luce di questo, non si può lasciare solo un insegnante ai limiti della resistenza, perché un docente opportunamente sostenuto sarà maggiormente in grado di farsi carico delle fragilità che incontra. Ricordandosi, poi, che riconoscere la propria fragilità da adulti non è una debolezza: sono finiti i tempi del docente tutto d’un pezzo, più simile a una sbarra di ghiaccio che a una persona; mostrarsi supereroi quando non lo si è porta a pericolosi esempi di incoerenza, proprio quando c’è tanto bisogno di autenticità. Un docente che nega se stesso diventa, alla lunga, invisibile, e lo stesso potrebbe valere per molti genitori. Educare oggi non vuol dire offrire certezze, ma abitare insieme la complessità.

Al professor Massimiliano Cerva, è toccato, infine, il compito di offrire un ampio e interessante excursus su “L’arte di insegnare tra sacralità e utilità pubblica nel mondo antico”

Le domande a fine convegno sarebbero tante, ma si è fatta sera. Emergono, però, alcuni punti fermi. Passato e presente a volte si intrecciano, come se certi problemi fossero nati insieme con la scuola. Una scuola dove è importante imparare a “fare rete”, intercettando i segnali precoci prima che il disagio dilaghi; dove l’insegnante impara anche a prendersi cura di sé e ad avere rispetto per se stesso prima di pretenderlo dagli altri. Una scuola dove chiedere aiuto non deve essere un tabù ma un segno di forza e di speranza.

Iris Zocchelli

Foto in evidenza: Siciliani-Gennari/SIR

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