Incrociare gli sguardi e mettersi in ascolto

Il saluto del Vescovo Enrico all'incontro di presentazione del Dossier sul Diritto d'Asilo della Fondazione Migrantes: occasione per una riflessione condivisa

Ricordarsi delle persone e delle loro sofferenze, al di là dei numeri. Per togliere la paura che spesso serpeggia nel sentire comune quando si guarda ai temi dell’immigrazione e del diritto di asilo. Con questi accenti il Vescovo di Trieste, Enrico Trevisi, ha portato il suo saluto all’evento di presentazione del Report 2024 sul Diritto d’Asilo della Fondazione Migrantes – che era anche l’appuntamento conclusivo di un corso di formazione per giornalisti – tenutosi lunedì 14 aprile nella sala, gremita, del Circolo della Stampa di Trieste. Un intervento grato anche verso chi ha lavorato a questo importante dossier, ma anche un’occasione per condividere alcune riflessioni con i presenti.

«Se parliamo del diritto d’asilo, parliamo di persone che provengono da tragedie. Non dobbiamo mai dimenticarlo. E di tragedie nel mondo ce ne sono tante» ha esordito. «Alcune entrano nelle nostre case perché ci sono giornalisti e telecamere a documentarle, penso alla tragedia dell’Ucraina, della Russia, della Palestina e di Israele. Ma ci sono tragedie più nascoste o delle quali non si parla più. Penso all’Afghanistan al Sudan… o a una tragedia come quella della Siria o ancora dell’Etiopia di cui nessuno è riuscito a raccontarci. Una delle tragedie più grandi di questi anni: si parla di 800mila morti. Certo, il 60% probabilmente morti per fame, ma non se ne parla».

Pensando alle persone che arrivano anche a Trieste e che entrano in determinate procedure previste dalla legge, il vescovo ha sottolineato come «non si tratti soltanto di far passare le carte, ma di incrociare gli sguardi. Gli sguardi delle persone con tante sofferenze». Spesso in città c’è tanta paura nell’incrociare questi sguardi e «abbiamo anche il dovere di prenderci cura di chi ha paura per evitare semplificazioni o procedure che in qualche modo incentivano ulteriori paure. La cultura dell’accoglienza è anche fare in modo che le persone sostituiscano alla paura la propria capacità di interagire in modo positivo». «A me stanno a cuore le persone con le loro ferite» ha proseguito «non fare polemica. Devo dire che purtroppo non stiamo investendo tanto a livello politico, culturale e sociale sulle persone che provengono da queste tragedie. Al posto di attivarle, le abbiamo parcheggiate, abbiamo lasciato spegnere la loro speranza, abbiamo aumentato il loro disagio psichico-psichiatrico e le abbiamo viste come dei nemici e loro si sono sentite continuamente sotto la minaccia di sguardi ostili». E, infine, ha concluso con un appello: «Si tratta di costruire una cultura dove non si semplifica, ma si ha il coraggio di guardare alla complessità e di trovare dei processi, anche graduali, per arrivare ad una mediazione affinché un popolo possa camminare nella direzione giusta. Senza alimentare, invece, quelle paure che portano a scelte sbagliate, anche a furor di popolo. Dobbiamo imparare e incrociare gli sguardi, vedere le persone e metterci in ascolto. E, con l’aiuto di questi dossier, avviare dei processi culturali di riflessione e ragionamento per individuare le strade per accompagnarle».

Luisa Pozzar

 

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