30 aprile 1945: l’insurrezione di Trieste

I giorni della bufera, la liberazione di don Marzari, il voto alla Madonna per la salvezza di Trieste di monsignor Antonio Santin e l'inizio di un lungo tempo di attesa

Incerta e timorosa: così era la città di Trieste in quegli ultimi giorni di aprile per ciò che la sorte le avrebbe riservato. Così invece non era per gli uomini del Comitato di liberazione nazionale cittadino: un audace colpo di mano compiuto dalla Brigata Ferrovieri, agli ordini di Marcello Spaccini uno dei prossimi sindaci democristiani di Trieste, era riuscito a strappare alle torture dell’Ispettorato speciale di pubblica sicurezza – organismo colluso con gli occupatori nazisti – il loro capo riconosciuto: era, questi, un coraggioso sacerdote capodistriano, don Edoardo Marzari. Non vi sono altri casi in Italia di sacerdoti capaci di rivestire un ruolo di tale importanza in seno a un CLN, né vi sono altri casi di una città in cui ad insorgere furono due organizzazioni. Come sempre nella sua storia – lo aveva scritto tanti anni prima Scipio Slataper – a Trieste “tutto è doppio o triplo”. Che cos’era accaduto? Bisogna fare un salto all’indietro di qualche mese: nell’autunno del 1944 i massimi dirigenti della federazione triestina del Partito comunista – Luigi Frausin e Vincenzo Gigante – in seguito alla delazione di un collaborazionista erano stati catturati ed uccisi nella Risiera di San Sabba. La nuova dirigenza, strettamente legata al Partito comunista e al Fronte di liberazione nazionale sloveni, imboccò una linea ben diversa: Frausin aveva sostenuto la tesi del rinvio alla fine del conflitto di ogni decisione sulla destinazione nazionale del territorio, ma alla sua scomparsa a prevalere fu la tesi dell’annessione della città alla nascente Jugoslavia di Tito. Un obiettivo che per il leader jugoslavo rivestiva la massima importanza sia sul piano politico ed economico che su quello simbolico. E Trieste si trovò al centro della bufera. Fallite le trattative tra i comunisti e il resto del Cln, fu rafforzata l’organizzazione filojugoslava Unità operaia, pronta a scendere in campo con una forza di circa 2000 uomini. Pronto ad insorgere era però anche il Corpo volontari della libertà, braccio armato del CLN, che riuniva formazioni democristiane ed azioniste agli ordini del colonnello Antonio Fonda Savio, già volontario irredento nella Grande guerra proprio come Ercole Miani, al comando dei reparti di Giustizia e Libertà. Insomma, due insurrezioni parallele e concorrenziali tra loro, come ha scritto Raoul Pupo: da una parte un CLN schierato per la difesa dell’italianità della città e ispirato a un antifascismo democratico e pluralista proprio come la resistenza italiana. Dall’altra Unità operaia, a sostegno di una Jugoslavia prossima a trasformarsi in uno Stato comunista comprensivo della regione Giulia. A rafforzarne le ambizioni era il fatto che la IV armata dell’Esercito popolare di liberazione jugoslavo, proveniente da sud, e il IX corpus partigiano sloveno che si era aperto la strada dalla Selva di Tarnova, erano ormai a un passo dalla città. Più prudente era l’avanzata del contingente alleato – la 2a divisione neozelandese – cui premeva di occupare Trieste il cui possesso era ritenuto fondamentale per sostenere le ultime operazioni militari verso l’Austria, ma che non intendeva imbattersi in problemi con gli jugoslavi. In queste difficili circostanze, il vescovo di Trieste e Capodistria, monsignor Santin, formulò il suo voto alla Madonna per la salvezza di Trieste, un voto che si sarebbe concretizzato anni dopo nella realizzazione del Santuario mariano di Monte Grisa.

Intanto, già dal 28 aprile in città si registravano i primi combattimenti e nella notte del 29 avvenne la liberazione di don Marzari di cui già si è detto. Alle 5.30 del 30 aprile, al duplice fischio delle sirene della contraerea, iniziava l’insurrezione durante la quale si riuscì ad evitare la devastazione delle strutture portuali predisposta dai nazisti. Gli insorti presero il controllo dei principali luoghi strategici della città ma i tedeschi riuscirono ad asseragliarsi in alcuni capisaldi: il Palazzo di giustizia, trasformato in sede del Gauleiter nazista, e il Castello di San Giusto. A imprimere una decisa svolta alla situazione fu l’arrivo, al mattino del 1° maggio, delle forze jugoslave. Dopo un primo apparentemente favorevole incontro con gli uomini del CVL, questi furono ben presto costretti a rientrare in clandestinità: sul terreno non c’era posto per chi si opponeva all’annessione di Trieste alla Jugoslavia. All’arrivo delle truppe neozelandesi, il 2 maggio, cadeva intanto anche il Castello di San Giusto le cui truppe si consegnarono agli alleati. Ma furono gli jugoslavi ad accreditarsi presso di loro come le nuove autorità cittadine e per l’italianità di Trieste iniziavano i durissimi quaranta giorni di occupazione jugoslava. Tuttavia, l’insurrezione condotta dal CLN italiano aveva consentito di dimostrare agli alleati – che avrebbero maturato la decisione di cacciare dal terreno gli jugoslavi – la presenza in città di forze democratiche su cui poter fare affidamento.

Gli accordi di Belgrado del 9 giugno 1945 portarono all’abbandono di Trieste e di Gorizia delle truppe titoiste; veniva tracciata una prima linea Morgan a separare le zone di occupazione della regione mentre sempre più netta si andava facendo la divisione dell’Europa in un blocco democratico e in uno comunista. A farne le spese sarebbero stati l’Istria, Fiume e Zara. Per Trieste cominciava invece il lungo tempo di un’attesa che si sarebbe concluso soltanto nove anni dopo, il 26 ottobre 1954.

 

Fabio Todero

Foto: Archivio fotografico Irsrec FVG

 

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