Un pomeriggio dal meteo piuttosto indeciso, mi costringe a spostarmi dai miei soliti tragitti. Raggiungere Padriciano è diventato inconsueto, ma so che qualcuno attende il mio arrivo e questa idea mi piace: essere attesi non capita molto spesso e lasciarsi trasportare da questa tensione emotiva, rende più leggeri anche i chilometri da percorrere.
Sto andando a incontrare don Silvano Latin che da un paio d’anni vive in Casa Ieralla. Abbiamo lavorato insieme per quasi 10 anni ed è stato lui a darmi i primi strumenti per entrare nella professione. I suoi consigli e anche le sue “lavate di capo” restano preziosi nel tempo. La gratitudine per tutto ciò che mi ha insegnato si mescola, oggi, all’emozione di rincontrarlo e ascoltare quello che mi dirà. Mentre arrivo, sento la sua voce inconfondibile che arriva dalla cappella: sta finendo di celebrare la Messa del giovedì. Poco dopo mi raggiunge e la conversazione si avvia, scorrendo con leggerezza.
Come ti trovi qui, don Silvano?
Prima di venire a Casa Ieralla ho sempre fatto molta fatica ad andare a trovare gli ammalati. E il Signore, facendomi arrivare qui, è come se mi avesse detto: “Adesso impara”. Devo dire la verità: assistere i moribondi è una cosa che mi dà pace. Anzi, mi lamento con il personale della casa se non mi avvisano in tempo… in questi anni qui ho imparato davvero tante cose.
Sei arrivato a Casa Ieralla dopo un periodo molto difficile…
Sì, dopo aver contratto il Covid ho passato 25 giorni in terapia intensiva e di questo arco di tempo non ricordo nulla. Ma ne sono uscito che non mi muovevo più. Quando sono arrivato qui ho trovato un’équipe straordinaria di fisioterapisti che hanno saputo aiutarmi – e lo fanno con tutti – anche psicologicamente. Se un giorno non avevo voglia di fare gli esercizi mi dicevano “va bene, oggi lasciamo stare, ma domani li facciamo eh”. E mi davano continuamente speranza. Tanto che adesso cammino in modo sciolto e porto con me il deambulatore solo per sicurezza. Ho difficoltà a stare a lungo in piedi, quindi celebro la Messa da seduto. Ma il peggio è passato e sono sereno. Nel senso più pieno della parola.
Hai affrontato anche altri momenti difficili…
Sì, è venuta a mancare mia sorella Mary, alla quale ero molto legato. Anche lei, dopo una caduta e un intervento delicato è venuta qui a Casa Ieralla… la sua è una storia particolare. Da quando sono qui lei veniva a trovarmi ogni quindici giorni, la domenica, perché aveva il marito ricoverato all’Itis e quindi veniva qui per la Messa, stava un’oretta con me e poi andava da suo marito. C’era sempre mia nipote, sua figlia, che la accompagnava in macchina. Come sai, le sorelle maggiori hanno sempre la tendenza a fare da mamme ai fratelli, quando la mamma vera viene a mancare… a metà ottobre dell’anno scorso era venuta qui come al solito per partecipare alla Messa e mi è venuta incontro quando ero già vestito per celebrare. L’ho avvertita di fermarsi perché il pavimento aveva un certo dislivello, ma purtroppo è inciampata ed è caduta sbattendo la testa. Dopo il ricovero d’urgenza in ospedale, l’intervento e la degenza il 25 ottobre è arrivata qui alle tre del pomeriggio. L’ho accolta, accompagnata in camera, poi sono tornato a trovarla alla sera prima di cena. Una carezza sulla testa, un “baseto” sulla fronte e un “se vedemo doman matina”… Alle 6.15 del mattino dopo arrivò l’infermiera, molto preoccupata per come avrei reagito, a dirmi che Mary era morta serenamente. Io ero sereno perché il Signore ha fatto un regalo a me e a lei: permetterci di trascorrere 24 ore insieme. E quindi sono sereno e va bene così.
Da buon giornalista della vecchia scuola, è don Silvano ad incalzarmi: «Andiamo avanti con le domande… la bontà di un’intervista dipende da quello che il giornalista sa chiedere. Se le domande sono intelligenti, l’intervista è intelligente». E procediamo oltre.
Ci racconti qualcosa di te?
Allora… 80 anni compiuti in marzo, 55 anni di sacerdozio, il 50° celebrato in silenzio perché c’era il Covid e le chiese erano bloccate… ho girato molte parrocchie da cappellano prima, da parroco poi. Gli ultimi 14 anni li ho vissuti a Muggia, come parroco per 10 anni. Poi ho dato le dimissioni perché non avevo più le forze per proseguire l’incarico, ma il nuovo parroco, generosamente, mi ha consentito di continuare a vivere lì, in casa parrocchiale. Ero abbastanza bloccato in casa e celebravo anche in casa. Poi il 2 febbraio del 2023, in concomitanza precisa con la nomina di Vescovo Enrico, ho avuto un malore al mattino e sono caduto. Devo ringraziare la mia cocciutaggine nel volere che i sacerdoti della parrocchia vivessero insieme in casa parrocchiale, perché se sono ancora qui lo devo al tempestivo intervento dei miei confratelli e alla determinazione di don Fulvio Marchesin, che nei giorni scorsi ha avuto un incidente, che, contrariamente a ciò che volevo fare io, ha chiamato il 118. Mi hanno portato d’urgenza in ospedale e in terapia intensiva. Dopo 25 giorni ne sono uscito con 30 chili in meno – l’ossigeno che mi hanno somministrato giorno e notte mi ha letteralmente asciugato – e senza alcun ricordo di quei giorni. Dopo una settimana di degenza in reparto Covid, sono arrivato qui in Ieralla e ho trovato un ambiente bello e accogliente. E dopo le prime settimane di necessario ambientamento, i fisioterapisti un passo alla volta mi hanno rimesso in piedi. Sono stati eccezionali. Celebro la Messa il giovedì e la domenica, il Rosario il sabato. E porto i sacramenti a chi ne ha bisogno. La dottoressa della casa mi chiama quando c’è una persona che ha bisogno di essere accompagnata nella sofferenza e nel passaggio alla morte.
Quanto è importante essere accanto alle persone in questo passaggio?
Ti racconto qualche esperienza… l’altro giorno è mancato il mio “dirimpettaio”. Una persona squisita. 88 anni, ex maresciallo dell’esercito e probabilmente anche Cavaliere del Lavoro. Nei giorni precedenti lo avevo visto particolarmente sofferente e quindi avevo chiesto alla dottoressa della casa se volesse suggerirgli di fare una celebrazione dell’Unzione degli Infermi. Quando una persona è ormai prossima al decesso, il Sacramento viene offerto con la sola unzione, mentre se si può celebrare in modo completo è meglio. Avevo capito che questa persona era credente anche perché l’anno scorso era venuto in piazza Unità per la Messa con Papa Francesco. Ha accettato di buon grado. Così abbiamo fatto questa celebrazione nella sua camera, lui, io e la dottoressa ed è stato contento. E, quando è stata la sua ora, se n’è andato, come si dice, “munito dei sacramenti della fede”. Ho risposto alla tua domanda?
Ti manca guidare una parrocchia o ti manca la tua comunità parrocchiale?
Con le comunità che ho guidato negli anni ho un rapporto continuo. Vengono a trovarmi, abbiamo una chat su Whatsapp, che puntualmente “impazzisce” in occasione dei compleanni. Con loro ci vediamo una volta l’anno a cena il giorno di San Nicolò e, come gioco tra di noi, ognuno porta un piccolo dono da “mettere in mezzo” in modo che ciascuno torni a casa con qualcosa. Se mi manca la parrocchia? No da un punto di vista amministrativo, perché è una condanna per i preti. Sì, per una vita di comunità. Credo sia molto importante per noi sacerdoti fare esperienza quotidiana di vita insieme.
Tu hai anche viaggiato tanto nella tua vita…
Sì. Ecco cosa mi manca: la Terra Santa.
Lì volevo arrivare… immagino che tu continui a tenerti informato e quindi immagino anche che vedere ciò che sta accadendo proprio lì, come anche altrove, ti addolori…
Soprattutto lì. E soprattutto ciò che sta accadendo nei luoghi di cui nessuno parla. Come la Cisgiordania. Dove hanno messo tanti di quegli insediamenti dei coloni ebraici che non c’è più spazio. E per come sono messe le cose, l’idea dei “due popoli, due Stati” è un’idiozia. Perché non ci sono due Stati. Netanyahu, di recente, ha fatto approvare una legge per l’invasione della Cisgiordania, o, per usare le loro parole, per l’aggregazione a Israele della Cisgiordania. Credo sia terribile che, nella mentalità della gente, non si possano distinguere gli ebrei dal governo degli ebrei e i palestinesi dal governo dei palestinesi. Per cui tutti e due i governi sono colpevoli, tutti. E il governo di Israele di più. Il punto è che la gente muore. Ed è una cosa terribile. Terribile. Bravo Papa Francesco che parlava di Terza Guerra Mondiale a pezzi. Oggi è scoppiata anche tra Cambogia e Thailandia… poi ci sono l’Etiopia, il Congo… Netanyahu ha richiamato i suoi rappresentanti che partecipavano alle trattative in Qatar. La logica è che si fa la guerra, si attacca, si bombarda in nome del diritto internazionale. Tutto questo è assurdo. E c’è molto dolore.
Quando si va in Terra Santa una volta, non ce la si toglie più dal cuore. Tu ci sei stato tante volte, giusto?
32 volte. E sono 4 anni che non ci torno più.
E perché fa ancora più male sapere quello che sta accadendo proprio lì?
Perché se vai in Terra Santa da pellegrino e non da turista, la cosa è ben diversa. Lì ti rendi conto che per quelle strade, in quei luoghi è passato Gesù a piedi e associ le sue parole a quei luoghi. Andare lì con una guida preparata, come è, per esempio, don Antonio Bortuzzo, ti permette di leggere la Parola e di sentirti spiegare il contesto di quel particolare luogo come se stessi leggendo un giornale… ti permette di mettere la storia di Gesù dentro la vita. Quindi sentire quelle notizie di violenze e morti innocenti rende il dolore ancora più grande. Perché legato anche alle persone che negli anni ho conosciuto e incontrato lì.
Puoi spiegare meglio?
Sono stato per la prima volta in Terra Santa nel 1970, appena ordinato prete. Mi avevano regalato i soldi per pagare il pellegrinaggio, quindi sono andato lì come pellegrino. Da vecchio giornalista sempre curioso di andare a sentire questo e quell’altro le persone del luogo mi spiegavano le varie situazioni. Io ero partito da qui convinto che avessero ragione gli ebrei. Poi sono andato a curiosare la sera per le stradine di Gerusalemme e degli altri luoghi santi e mi sono convinto che avessero ragione gli arabi. Poi, tornato a casa, ho capito che non si può capire. Perché dal 1948 in poi c’è stata tanta sofferenza. Pensa che una persona del posto, 4 o 5 anni fa, mi ha detto… “Devo dirle una cosa. Voi avete tutto, siete in pace. Pensi che una persona che qui ha 60 anni non ha mai conosciuto un giorno di pace”. Ci sono le storie delle persone che incontri che ti fanno capire la sofferenza di quella gente, di quella terra.
In tutto questo c’è il tema della speranza. Anche se di fronte a tanta violenza e sofferenza, pare addirittura una beffa…
Dopo il temporale c’è sempre il sole… Quindi, al di là della fede, dobbiamo ricordarci che le cose umane hanno una fine. Per cui, forse io non lo vedrò, ma prima o poi ci sarà la pace. Anzi, qualcuno mi ha detto una volta “Sai quando ci sarà la fine del mondo? Quando ci sarà pace a Gerusalemme”. Quindi per la fine del mondo dobbiamo aspettare ancora un po’…
Papa Leone XIV di recente, in occasione della Giornata mondiale dei nonni e degli anziani, istituita da Papa Francesco, ha scritto un messaggio che mette al centro la speranza. A te manca essere nonno?
Non mi manca essere sposo, ma mi manca essere nonno, sì. Ed è qualcosa che ho capito nel tempo. La prima volta che sono diventato parroco ero a Gesù Divino Operaio. Avevo 38 o 39 anni. Per l’epoca ero un parroco giovane. La sera prima di rientrare in parrocchia ho fatto un giro con la macchina per il perimetro della parrocchia e ho capito cosa sia la paternità pastorale. Mi manca essere nonno perché credo che un nonno possa capire questo. Può capirlo perché pensa alle cose che hanno fatto i suoi figli, pensa ai suoi nipoti… nel tempo dell’inattività questi pensieri vengono inevitabilmente a galla. Prima non hai il tempo di farli emergere.
Quindi nel “pacchetto” dell’anzianità c’è anche il tempo e la riscoperta del tempo?
Assolutamente. Anche il peso del tempo. Il tempo è una riscoperta e anche un peso. Per esempio sono diventato un grande consumatore di serie tv. Prima leggevo moltissimo, ma adesso ho qualche problema con la vista e mi affatico molto a leggere. In questi anni avrò letto in tutto un paio di libri, non di più. Erano molto grossi, ma restano comunque solo un paio. Sai, il tempo è una risorsa, ma può essere anche una condanna…
Avendo tempo, ho la possibilità di osservare e di cogliere i tratti delle persone che sono ospiti qui. E c’è una varietà di caratteri e peculiarità non indifferenti: c’è chi chiama in continuazione il personale, chi ne ha da dire una per colore a tutti quelli che incontra durante la giornata. E via così. Un’umanità davvero varia.
E ti manca fare il giornalista?
No, no. Anche perché vedo come si è ridotta l’informazione. Come per tutte le cose puoi tirare fuori dal mazzo quattro o cinque buoni giornalisti che fanno bene il loro lavoro… Ti dico sinceramente che non sopporto più questa tendenza ad andare continuamente a disturbare chi ha perso un figlio e chi è nel dolore. Questi processi infiniti fatti sulle pagine dei giornali e in tv… mi riferisco anche a come vengono trattati i casi di cronaca nera locale…
Ma ci sarà un po’ di speranza anche per il mondo del giornalismo…
La speranza c’è sempre. Non muore mai. Ricordo l’espressione dell’autore della Lettera agli Ebrei che dice che “Est autem fides sperandarum substantia rerum, argumentum non apparentium “ e cioè “La fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono”. Quindi la speranza c’è perché poi, alla fine, vince Lui. Però la speranza esige la fede e pretende la carità.
Non può restare, quindi, su un piano solo teorico…
No. Una delle cose che ho imparato a dire a queste persone è che “missia che te rimissia… te devi solo ricordarte che Dio te vol ben”. Tutto il resto sono sovrastrutture. Cioè, ricordarsi della misericordia di Dio: è quella il senso della vita. Anche il ladrone sulla croce vicino a Gesù l’ha conosciuta.
Hai ricordato prima che qui accompagni diverse persone nel momento del trapasso. Ecco, in quei frangenti, dove sta la speranza?
La speranza sta nel fatto che quella persona è andata nella vita eterna. Sta nella certezza che, qualunque sia stata la sua vita, adesso è migliore. È una cosa che si percepisce. Io la percepisco in maniera molto forte e la spiego ai familiari. Quando ho avuto l’occasione di dare l’Unzione degli Infermi con i familiari presenti, erano tutti contenti. Ci sono tante storie che mi vengono davanti mentre lo dico. Per esempio ricordo un figlio che il giorno dopo che avevo dato l’Unzione a suo padre, che si avvicinava alla morte, è venuto a ringraziarmi e visto che, come accade spesso prima della morte, il padre si era decisamente ripreso, mi chiese se si poteva fare di nuovo… nei giorni del mio ricovero credo di aver ricevuto almeno una quindicina di Unzioni degli Infermi. E so che sono state importanti.
C’è qualche altra storia che ti ha colpito?
Guarda, proprio prima a Messa mi ha colpito una persona che, quando il ministro straordinario gli si è avvicinato per dargli la comunione, ha detto “non posso”. “Perché non ho perdonato”.
In questa fase della vita, secondo te, cambia anche la consapevolezza rispetto alla vita spirituale?
Dipende dall’educazione. Dipende tutto dalla famiglia che hai avuto. Poi c’è gente, sai… c‘è gente che muore a 50 anni e qualcuno si domanda perché… e io rispondo che non abbiamo scadenza. E prego Dio di conservarmi questo spirito e di non peggiorare la mia consapevolezza.
C’è qualcosa che ti fa paura?
Ho un solo timore, sinceramente. Quello di perdere la vista… avere il buio dentro e la mancanza di rapporto con le altre persone fuori…
Le persone anziane, come ha scritto anche Papa Leone nel suo messaggio, possono essere segni di speranza, ma come possono esserlo concretamente in un mondo che spesso le chiude nelle case di riposo o le lascia nella loro solitudine?
Questo è il problema, sai? Ci sono persone che vengono depositate qui e non hanno nessuno che venga a trovarle. E così è difficile essere un segno di speranza, soprattutto se sei ammalato. Se invece non sei ammalato, sei la speranza. Perché ti vedono. Quando sei ammalato è difficile. Perché ognuno tende a rinchiudersi in se stesso, a guardare i propri dolori, le proprie difficoltà. È naturale che sia così…
E tu come nutri la tua speranza?
Sono utile. Cioè, la mia vita ha ancora un senso. La perdita della vista è l’unico pensiero che mi potrebbe togliere l’orizzonte. Ma qui mi sento veramente utile. Tante persone vengono a chiedermi delle cose. Ciascuno, anche tra il personale, può avere situazioni problematiche in famiglia, con i figli… e parlando con loro so che posso offrire un minimo di speranza e di interpretazione della realtà. Mai giudizi sulle persone. Per me la speranza è sapere che posso ancora essere utile in qualcosa.
Il dibattito sul fine vita è molto acceso in questo periodo. Anche alla luce di ciò che vivi qui dentro, tu cosa pensi a riguardo?
Io credo che nessuno possa capire quello che una persona sta passando e nessuno può permettersi di giudicare. C’è una linea di principio e va rispettata. Nessuno, che non viva quell’esperienza, può giudicare. Le cure palliative sono importanti. Se poi la persona va in coma, non serve spegnere le macchine. Le macchine possono accompagnarla fino alla fine, perché sta in coma… ma credo davvero che nessuno possa giudicare. Perché per capire quelle cose bisogna viverle. Quello che mi fa veramente rabbia è sapere che esiste un’associazione per il fine vita e non esiste, invece, un’associazione per l’inizio vita…
Prima hai parlato del tuo 50° di sacerdozio durante il Covid. Alla fine sei riuscito a festeggiarlo?
Ci sono riuscito quest’anno. A Muggia, in Duomo, mi hanno preparato un altarino pieghevole, di legno, dietro all’altare maggiore. Ho potuto celebrare con la mia “Chrysler” – il deambulatore – e sempre con la mia “Chrysler” sono andato davanti per l’omelia e c’è stato un momento molto bello perché poi mi hanno scarrozzato in oratorio dove hanno organizzato una festa. Don Andrea deve aver avvisato il vescovo e me lo sono visto arrivare con una bottiglia di vino e poi abbiamo pranzato insieme. C’era un clima davvero molto bello.
A cura di Luisa Pozzar
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