Nella mostra attualmente in corso a Gorizia presso il Museo di Santa Chiara, nell’anno in cui la città è Capitale Europea della Cultura insieme a Nova Gorica, un tesoro materiale rappresentato da manufatti di gran pregio è la via maestra per giungere al vero tesoro immateriale dell’arcidiocesi goriziana: la spiritualità condivisa che, fin dagli albori del patriarcato di Aquileia, ha tenuto per secoli unito un territorio molto vasto e complesso. La comune fede cristiana è infatti alla base di un fenomeno forse unico in Europa, cioè quello della convivenza pacifica fra popolazioni germaniche, slave e latine. Le lotte interne alla dirigenza nobiliare, che portarono ad azioni efferate come l’uccisione del patriarca Bertrando a San Giorgio della Richinvelda nel 1350, non sono infatti nei secoli riuscite a scalfire il senso di appartenenza comune delle genti di un patriarcato che, nato sulle pietre di una delle principali città dell’impero romano, vide la propria forza scaturire dal sangue di numerosi martiri di cui questa terra fu assai ricca. Fra di essi troviamo i santi Ilario e Taziano, patroni della città di Gorizia, i cui reliquiari di epoca rinascimentale sono esposti in mostra. Ilario, vescovo successore di Ermacora, e il suo diacono Taziano sono presenti ovunque tanto in Friuli quanto in Slovenia, terre bagnate entrambe dalle acque dell’Isonzo, il cui nome compare nella formula Aesontio sacrum in una piccola ara votiva romana che risulta precedere qualunque altra attestazione storico- letteraria indicante il fiume. Il senso ancestrale di sacralità delle acque fluviali si ripropone trasfigurato in una lapide battesimale del IV secolo raffigurante una ragazzina, probabile simbolo di un’anima ridiventata bambina perché rinata sotto lo scroscio dell’acqua sacramentale alla presenza di Cristo e di un sacerdote. Al periodo più antico dell’Aquileia cristiana risale anche un significativo rilievo in pietra coi volti in profilo dei santi Pietro e Paolo che si guardano intensamente a suggello di una concordia raggiunta attraverso la discussione e il confronto. Concordia espressa plasticamente dalla scultura ed esplicitata verbalmente nell’inno Ubi caritas est vera, ibi Deus est (“Dov’è carità e amore lì c’è Dio”), scritto dal patriarca san Paolino per il Concilio di Cividale del 796. Poco prima si era tenuta sulle rive del Danubio una riunione missionario-catechetica, detta conventus ad ripas Danubii, dalla quale era emersa la decisione di evangelizzare gli slavi senza violenza e costrizione alcuna. La valenza politica del testo è fondamentale: Paolino era anche missus dominicus, ovvero inviato di Carlo re dei Franchi a pacificare Longobardi vinti, Franchi vincitori, latini vinti da tutti e gli slavi che ormai si affacciavano sulle colline sopra Cividale. Un canto che nella mostra si è deciso di trascrivere in quattro lingue: latino, italiano, friulano e sloveno. A rappresentare la devozione franca figura in mostra anche un san Sigismondo, esponente di spicco del cristianesimo della Gallia.
La storia secolare del patriarcato aquileiese termina ufficialmente nel 1751 con la soppressione dello stesso da parte di papa Benedetto XIV e la creazione al suo posto dell’arcidiocesi di Udine e di quella di Gorizia, rispettivamente in territorio veneziano ed asburgico. Il legame della Casa d’Austria con la nuova sede arcivescovile goriziana trova espressione particolarmente sontuosa negli splendidi paramenti sacri donati dall’imperatrice Maria Teresa, la cui seta riluce di un celeste ineffabile.
L’appartenenza della città all’impero è sottolineata in vario modo. Un dipinto di autore ignoto, riprodotto nel Catalogo e realizzato per la chiesa di Sant’Ignazio, raffigurante la nobiltà cittadina che chiede a san Francesco Saverio di intercedere per liberare Gorizia dalla peste del 1682, è prova visibile della pietas asburgica e della duratura alleanza fra trono e altare. Un’altra opera si riferisce invece a quello che fu uno dei momenti più drammatici della storia europea: l’assedio di Vienna da parte degli ottomani del 1683. Alla liberazione della capitale imperiale fu presente il beato cappuccino Marco d’Aviano, allievo dei Gesuiti a Gorizia e raffigurato insieme al duca Carlo V di Lorena in un dipinto barocco oggi conservato presso il Museo Diocesano di Pordenone, di cui recentemente si è scoperta la provenienza da Palazzo Pitti a Firenze. Una carrellata di ritratti di teste coronate fino a Francesco Giuseppe conclude il percorso della mostra, la cui cronologia si ferma sulle soglie del primo conflitto mondiale. L’incantesimo di concordia fra i popoli di queste terre si spezza infatti con la Grande Guerra ma, come gli odi resistono al tempo, così anche il bene si trasmette a distanza di generazioni e un’antica epigrafe aquileiese può comunicarci ancora oggi un messaggio vivificante. Facendo riferimento ad un uomo di nome Restutus, un africano morto ad Aquileia, vi si legge infatti che «egli però aveva trovato qui anche più dei suoi stessi genitori: e ormai non era più un estraneo, perché finì per esser come nato da noi stessi».
Realizzata dal Comune di Gorizia con la collaborazione dell’Arcidiocesi di Gorizia e la partecipazione della Regione Friuli Venezia Giulia, l’esposizione è curata da Alessio Persic e diretta da Marino De Grassi. Inaugurata il 21 giugno, durerà fino al 28 settembre ed è visitabile dal mercoledì alla domenica dalle 10 alle 13 e dalle 17 alle 23. Costo del biglietto: 5 euro.
Margherita Agostini
Immagine in evidenza di Claudio Sclauzero per Nuove Edizioni della Laguna