Carlo Acutis e la luce negli occhi: intuizione di santità

Un ricordo personale diventa racconto corale: l’autore rievoca i fugaci incontri ad Assisi con Carlo Acutis, allora ragazzo curioso, oggi santo

Ci sono storie e incontri che solo col tempo svelano tutta la loro bellezza. Nella mia vita professionale di giornalista, che da sempre si intreccia con il mondo cattolico, mi è capitato spesso di raccontare figure di santità: da Papa Giovanni Paolo II a Gianna Beretta Molla, tanto per ricordarne un paio dei nostri tempi, fino alle figure più radicate nella tradizione come san Francesco, santa Chiara e san Benedetto, della mia amata terra umbra. Ognuno di questi incontri, da cronista e da testimone, ha lasciato un segno.

Quello che non potevo immaginare, nei primi anni Duemila, è che ad Assisi – città che frequentavo spesso per i servizi televisivi destinati a Tv2000, l’emittente dei cattolici italiani – mi sarebbe capitato di incrociare un ragazzo che ora la Chiesa riconosce come santo: Carlo Acutis.

Credo che siano stati due, forse tre, gli incontri con lui, sempre nella Città serafica, mentre con gli operatori video ci trovavamo in piazza o nelle basiliche francescane per preparare un’intervista o realizzare delle riprese. Carlo si avvicinava con discrezione, quasi in punta di piedi, ma con una luce particolare negli occhi. Ricordo bene la sua insistenza gentile, la curiosità viva con cui ci chiedeva perché fossimo lì, quale notizia stessimo raccontando, per chi lavorassimo e quando sarebbe andato in onda il servizio: voleva vederlo, seguirlo, imparare.

Non era una curiosità banale, di chi si ferma solo per guardare. Era qualcosa di più profondo: un desiderio di capire il mestiere della comunicazione, di carpirne i segreti, come se intuisse che quegli strumenti potevano diventare un canale potente per trasmettere la fede. E in effetti, lo sappiamo oggi, Carlo aveva fatto della comunicazione uno dei suoi talenti più grandi, utilizzandola per diffondere il Vangelo e per raccontare i miracoli eucaristici in giro per il mondo.

Allora, però, nulla di tutto questo era chiaro. Per noi erano gli incontri spontanei di un ragazzo curioso, simpatico, gioioso. Un volto che si affacciava tra tanti, ma che lasciava una sensazione insolita: non capita spesso che sia un adolescente, con quello sguardo limpido e pieno di vita, a fermarti per domandarti di ciò che stai facendo. Quella luce negli occhi, oggi, la riconosco come un segno della sua santità.

Molti anni dopo, quando il nome di Carlo ha cominciato a farsi conoscere – prima come Servo di Dio, poi come Beato e ora come Santo – ho rivisto le sue fotografie, i brevi video con la sua telecamerina in mano, intento a filmare se stesso o gli altri. In quelle immagini ho ritrovato il ragazzo scuro di capelli, riccioluto, che si avvicinava a noi mentre lavoravamo ad Assisi. E mi sono chiesto se, tra i suoi tanti filmati, non ci fosse anche qualche ripresa di noi, di quelle troupe televisive che tanto lo incuriosivano.

Oggi, guardando a quei momenti, mi accorgo che erano molto più di un semplice incontro casuale. Per chi lavora nei media, raccontare la fede e la Chiesa è una vocazione e una responsabilità. Aver incrociato un ragazzo che avrebbe usato gli stessi strumenti della comunicazione per evangelizzare e testimoniare la bellezza del Vangelo è stata, senza che me ne accorgessi, una piccola grande grazia.
Ho incontrato un santo da bambino, da ragazzo. E solo ora capisco fino in fondo il dono che è stato. Questa storia, però, non l’avevo mai narrata attraverso i media: l’ho sempre custodita nel cuore, nella parte più intima dei miei ricordi.

Daniele Morini (SIR)

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