C’è il sole a Trieste. La pioggia della notte ha lasciato spazio alla luce e la giornata si presenta in tutta la sua bellezza. Qualche nuvola all’orizzonte porterà, forse, ancora qualche scroscio di pioggia più tardi. Ma questo venerdì mattina l’aria è pulita e fresca. Incontriamo monsignor Paolo Bizzeti sj, Vicario Apostolico in Turchia dal 2015 al 2024, nella Curia Vescovile di Trieste: si trova in città per guidare alcuni incontri e l’occasione è propizia per poterlo intervistare. Il suo sorriso e la sua cordialità ci accolgono e l’ascolto prende presto il giusto spazio e scandisce il tempo dedicato all’incontro.
Cominciamo dall’inizio, da quella che è stata la sua vocazione. Come è nata? Vuole raccontarci qualcosa su questo?
Direi che l’itinerario che mi ha portato a entrare nella compagnia di Gesù ha due fasi abbastanza precise. In una prima fase, sono stato colpito dalla testimonianza di Padre Massimiliano Kolbe: ho letto un libro sulla sua vita, su come lui è morto e questo ha fatto nascere in me il desiderio di una vita donata completamente al Regno di Dio, una vita donata agli altri. Questo è stato il nucleo incandescente della mia vocazione, il punto iniziale. Francamente da giovane non pensavo a farmi prete: pensavo di fare l’ingegnere, avevo una ragazza… Però la testimonianza di un martire del nostro tempo che ha scelto di morire per salvare la vita di qualcun altro, mi ha cambiato un po’ la prospettiva. La seconda fase, invece, sono stati i lunghi anni della formazione dove ho dovuto riflettere più “a freddo” su come volevo spendere la mia vita, di cosa significava essere presbitero, religioso. Finché, ad un certo punto, è arrivato il momento delle scelte. A dire la verità, poi, c’è anche una terza fase…
Quale?
Quando, nel 2015, Papa Francesco mi ha chiesto la disponibilità ad andare come vescovo in Turchia per dare una continuità a monsignor Luigi Padovese che era stato barbaramente ucciso alcuni anni prima e, di fatto, la diocesi era senza un pastore. Ecco, queste sono state le grandi tappe della mia avventura dietro al Signore, cercando di servire il prossimo.
Collegandoci al tema centrale della Lettera Pastorale del Vescovo di Trieste, Enrico Trevisi, le chiedo: in tutto questo percorso, qual è stata la sua esperienza di cura? Quella che lei ha ricevuto e quella che ha potuto dare…
Prima di tutto, c’è la mia esperienza rispetto alla cura che gli altri hanno avuto di me. Ho avuto la grazia di avere dei genitori che mi hanno trasmesso valori fondamentali, poi i formatori che mi hanno voluto bene e che non mi hanno fatto degli sconti: sono stati esigenti e mi hanno trasmesso la loro sapienza di vita e la loro cultura. Inoltre, devo dire che per me sono state fondamentali anche alcune donne che mi hanno voluto bene e che mi hanno aiutato a maturare come uomo e come presbitero. Per questo sono particolarmente grato ad alcune figure femminili di cui io ero il padre spirituale o colui che annunciava loro il Vangelo. In compenso loro sono state capaci di volermi bene, di vedere anche i miei limiti e di aiutarmi. E questo per me è stato molto significativo.
In un tempo come il nostro, in cui si corre continuamente, in cui tutto corre, un tempo in cui anche molte cose sfuggono, perché, secondo lei, è importante riscoprire la cura come una chiamata per ciascuno?
Questo l’ho capito ancora meglio nei dieci anni in cui sono stato in Turchia, in particolare nella Turchia del Sud. Una terra nella quale le relazioni personali, il dedicare tempo gli uni agli altri in modo gratuito è ancora un valore preminente rispetto alla nostra civiltà che ormai non ha più nemmeno il tempo e le energie da dedicare davvero alle relazioni. Si vive di momenti molto frammentati, dopodiché ciascuno ha la sua vita, l’individualismo è cresciuto tantissimo anche nelle famiglie e questo, a mio parere, è un forte impoverimento. Bisogna avere il coraggio di dire che noi non siamo l’avanguardia dell’umanità o della civiltà. Piuttosto noi siamo una civiltà che ha perso molte cose importanti. Senza nostalgie del passato, perché dobbiamo fare i conti con il mondo di oggi… però la cura di se stessi e degli altri richiede tempo, energie e continuità. Quello che manca a noi è soprattutto la continuità. Viviamo in modo spezzettato, frammentato e momentaneo in tutti gli ambiti della nostra vita e questo non riesce a costituire una storia. Ora, senza una storia, senza fedeltà, senza continuità, non ci può essere vera cura.
Lo si vede concretamente anche nei contesti sanitari, di cura della salute…
C’è soltanto lo specialista che in un qualche momento offre il suo contributo per il problema di quel momento. Il che va bene, però, per restare nell’ambito medico, quello che a noi manca oggi è il medico di famiglia che c’era un tempo: un medico che conosceva la famiglia, conosceva la persona con continuità, si chiamava il “medico condotto”. La sua figura garantiva quella continuità che permetteva anche una cura più intelligente, perché gli interventi occasionali o frammentari impediscono di cogliere la persona nella sua unità psicologica, affettiva, familiare e soprattutto nel tempo.
È interessante ciò che dice, ovvero che la cura richiede tempo, che è proprio quello che tutti diciamo di non avere.
In realtà il tempo ce l’abbiamo perché gli studiosi calcolano che noi passiamo più di un’ora al giorno sui social media, quindi non è vero che non abbiamo tempo… è che, appunto, preferiamo il “mordi e fuggi”, preferiamo le emozioni, ma le emozioni, pur essendo importanti, non fanno sentire amati e non permettono di amare seriamente. La cura è un amore che si prende a cuore con continuità. Nella celebre Parabola del buon samaritano, sottolineiamo sempre che egli si china sul ferito lungo la strada. Questo è indubbio, però lui non si ferma a questo primo gesto. Infatti, poi porta il malcapitato alla locanda, poi dice “ritornerò, pagherò ancora se ci sarà bisogno”… si tratta di un prendersi cura che si distende nel tempo, non è un intervento occasionale che sa più di elemosina che di cura…
Torniamo a ciò che si percepisce forte in lei, ovvero l’amore molto profondo verso la Turchia. Diceva prima che in questa terra ha imparato e accolto delle cose che qui non ci sono. La dimensione del tempo lì come viene vissuta?
La Turchia è in un processo di trasformazione rapidissimo, quindi, è necessario fare delle accurate distinzioni tra la vita a Istanbul, a Smirne, dove tutti cominciano a vivere di corsa come da noi, e ampie parti del Paese dove i ritmi non sono gli stessi, dove la gente si ferma a parlare, dove anche le pause durante il lavoro sono essenziali e non rubate al tempo del lavoro. D’altra parte, leggevo sui giornali proprio pochi giorni fa, che adesso in alcune nazioni del Nord Europa si sta riscoprendo il valore della pausa durante il tempo di lavoro: non soltanto una mezz’ora per ingoiare di corsa qualcosa da mangiare; la qualità della vita deve rimanere l’essenziale, anche se questo forse vuol dire meno produttività. È in queste cose, anche, che si vede la verità del Vangelo: il Signore ci insegna uno stile di vita dove si dà tempo all’incontro con le persone. Lui stesso, Salvatore del mondo, per i dieci undicesimi della sua vita ha fatto la vita di villaggio insieme con gli altri, non ha avuto la smania di fare subito il salvatore di tutti, di andare dovunque, di raggiungere chiunque.
La scrittura racconta la vita di Gesù con i tempi scanditi anche molto dalla preghiera…
Dalla preghiera e dalle feste. Nel mondo antico, nel mondo del tempo di Gesù, è stato calcolato che ci fossero circa 160 giorni di feste all’anno e noi occidentali, invece, abbiamo trasformato le feste in nuovi lavori, dove si corre per andare al mare, per andare in montagna, ecc. e questa è un’altra forma ancora di schiavitù. Spesso sentiamo dire che “finite le vacanze avrei bisogno di qualche giorno di riposo”: questo manifesta che c’è qualcosa di malato nel nostro modo di vivere.
In Turchia è diverso?
Lì, ho apprezzato luoghi in cui la gente è sicuramente più povera, però è capace di essere interessata all’altro, è curiosa, si parla, condivide; si ride e si piange insieme; quando si fa festa, si fa festa sul serio. Per dire, nel sud della Turchia ho visto vivere molto meglio la domenica che non da noi. Quindi questo dovrebbe farci riflettere. Purtroppo noi siamo diventati il modello da imitare, quindi anche loro stanno rapidamente correndo verso il nostro modo di vivere. Ma prendono il peggio invece che il meglio.
Nei giorni scorsi, c’è stato un incontro in piazza San Pietro tra Papa Leone XIV e il sindaco di Betlemme. Quest’ultimo, nel raccontare la situazione che stanno vivendo lì, ha sottolineato come siano un grosso problema i cristiani che se ne vanno perché non hanno più lavoro e, per contro, i pellegrini che non arrivano. Le chiedo: secondo lei, pensando alla Terra Santa, ma anche alla Turchia, i pellegrinaggi possono essere considerati una forma di cura?
La Turchia è la Terra Santa della Chiesa. Diciamo che il pellegrinaggio è un’aspirina per una persona che ha il cancro… in sé può fare bene, ma in realtà se noi vogliamo prenderci cura dei cristiani nel Medio Oriente dobbiamo cambiare la nostra politica in Occidente. Il disastro in cui vivono i cristiani nel Medio Oriente è direttamente legato alla politica dei paesi occidentali e degli Stati Uniti in modo particolare. Negli anni recenti sono state le due guerre del Golfo che hanno mutato e destabilizzato il Medio Oriente con un “effetto domino” spaventoso. Penso agli interventi degli Stati Uniti dopo l’11 settembre mirati a piazzare le loro basi nei vari paesi del Medio Oriente. Il risultato? Dopo vent’anni, per esempio in Afghanistan, abbiamo reso più forti i talebani e, naturalmente, i cristiani sono costretti a scappare. Stessa cosa in Iraq.
Può spiegarci meglio?
Io in Turchia ho seguito da vicino i rifugiati cristiani dall’Iraq: ce ne sono 800mila e moltissimi di questi sono cristiani. Oggi purtroppo i cristiani iracheni rifugiati in Turchia rimpiangono Saddam Hussein: era un feroce dittatore, non c’è dubbio, però a quel tempo c’erano più spazi e più possibilità anche per i cristiani, come per tanti altri. Per non parlare poi degli interventi di Israele appoggiati in modo irrazionale dagli Stati Uniti e in modo silenzioso ma reale dall’Europa: interventi che hanno destabilizzato completamente vari paesi. I cristiani sono tra i primi a pagare le conseguenze di questo. Già al tempo delle Guerre del Golfo, San Giovanni Paolo II l’aveva detto molto chiaramente: i cristiani avrebbero pagato un prezzo durissimo perché queste aggressioni fanno il gioco dell’integralismo e del fondamentalismo che vorrebbero combattere. E, in realtà, lo alimentano. Questa è la pura verità.
Eppure le nazioni cristiane con le loro politiche dicono di voler difendere proprio le radici cristiane…
Le politiche delle nazioni cristiane, già dopo le Prima Guerra Mondiale, hanno sconquassato completamente il Medio Oriente. L’Impero Ottomano, tutto sommato, era stato più capace di rispettare i vari clan, le varie tribù, le varie appartenenze religiose. Poi, certo, era un impero che mungeva i suoi sudditi, però in quel sistema c’era più spazio per i cristiani. Al tempo dell’Impero Ottomano i cristiani in Turchia erano circa il 20%, oggi noi ci troviamo a una presenza dei cristiani che nei casi migliori raggiunge appena l’1-2 percento. Questo è direttamente legato alla politica delle potenze occidentali che allora erano tutte potenze cristiane. Le stesse che hanno fatto disastri con il colonialismo espresso in varia forma. Basterebbe studiare un po’ la storia per accorgersi che noi occidentali siamo quelli che facciamo le belle preghiere per i cristiani e il Medio Oriente, ma francamente sarebbe più importante cambiare la nostra politica e la nostra economia: perché è un’economia di assalto, di conquista, che depreda le risorse direttamente o tramite quelli che io chiamo “vassalli”.
A cosa si riferisce?
Mi riferisco ad alcuni “vassalli” che lavorano “sporco”. Per me è agghiacciante che Trump o Charlie Kirk facciano discorsi sul cristianesimo quando sono i primi ad alimentare il fondamentalismo di reazione, innescando processi violenti che verranno pagati con il sangue dalle minoranze e tra queste minoranze anche i cristiani, non solo del Medio Oriente, ma anche da noi. Quelli che vogliono vivere il Vangelo oggi sono emarginati perché sono miti, perché vogliono la giustizia, perché vogliono il pluralismo, perché vogliono una crescita insieme con altri e non diventare i più grandi. È terribile la dinamica che si sprigiona quando si comincia a dire «America first», che si replica un po’ ovunque. Se si innesca la dinamica che ognuno vuole essere il primo è finita, non ci può essere altro che il conflitto. Queste sono cose di una chiarezza incredibile, come è chiaro il Vangelo, ma a quanto pare i cristiani sono i primi che non credono al Vangelo.
Sembra esserci, quindi, un problema di fondo, abbastanza importante. In tutto questo vediamo quanto sia trascurata la cura delle parole e quanto importante, invece, sarebbe promuoverla. Se c’è una cosa che vediamo non funzionare è proprio il parlarsi, il dialogare… la diplomazia.
Infatti ci sono le pallottole che escono dalle pistole e dai fucili mitragliatori, ma ci sono delle pallottole ancora peggiori che sono quelle che escono dalla bocca. Questo non lo dico io: lo dicono i libri sapienziali della Bibbia, in lungo e in largo. Lo dice anche San Giacomo che “la lingua uccide”. Si è scatenata questa retorica aggressiva, che colpevolizza, che vede nemici ovunque, che inevitabilmente porta anche alla violenza fisica, perché le cose nascono dal di dentro, come dice Gesù, e il di dentro viene plasmato dalle parole che si usano. Quindi, demonizzare il nemico, criminalizzare la diversità, tornare a fare le crociate religiose, ecc. innesca processi che inevitabilmente portano allo scontro. Bisognerebbe abbassare i toni. Il Presidente Mattarella l’ha detto infinite volte, ma i nostri politici, di oggi e di ieri, hanno fomentato gli slogan invece che le parole accurate, pensate, meditate, che vanno incontro all’altro. Papa Giovanni XXIII nel mondo aveva lanciato lo stile del dialogo. Oggi non c’è il dialogo, oggi c’è l’aggressione verbale. E questo, come vediamo, ha già delle conseguenze negative.
Tornando al problema di fondo che è emerso, ovvero al fatto che anche noi cristiani conosciamo e viviamo poco il Vangelo, le chiedo quanto è importante, secondo lei, la cura spirituale.
La vita spirituale e quindi la cura spirituale significa che noi ci lasciamo plasmare dallo Spirito Santo: il resto sono dei giochini mentali, che nascono da noi e finiscono con noi e quindi sono autocentrati. Invece, bisogna lasciarsi plasmare dallo Spirito Santo – come Gesù si è lasciato plasmare dallo Spirito Santo, passo dopo passo; è lo Spirito d’amore del Padre che lo ha portato a custodire se stesso, a non abboccare ai facili successi, e che lo ha portato a rinunciare alla difesa violenta di se stesso e dei suoi, ma piuttosto a morire in croce – questo stesso Spirito suscita in noi la consapevolezza che l’unico vero male è quello che noi facciamo agli altri. Quello che gli altri fanno a noi è doloroso, ma non è il vero male, non è quello che ci crea l’inferno interiore. L’inferno interiore è causato soltanto dalle nostre scelte quando diventiamo egoisti, aggressivi, autocentrati, preoccupati soltanto di salvare noi stessi sulla pelle degli altri. Come dicevano gli antichi, se il nostro slogan è mors tua, vita mea, abbiamo già ucciso la radice della vita.
E in tutto questo percorso quanto è importante anche avere un buon accompagnamento spirituale?
Nessuno si salva da solo, quindi abbiamo bisogno di uni degli altri. La parola di Dio va letta in comunità. Va letta con gli altri, dopo averla letta personalmente. Ci vogliono delle guide, ci vogliono dei pastori, ci vogliono degli esperti che non facciano semplicemente il lavoro di “fare da specchio”, ma che siano capaci anche di aiutare la persona a discernere le dinamiche di vita da quelle invece mortali. Non abbiamo accompagnatori spirituali a sufficienza per un unico motivo: perché il soggettivismo è diventato la filosofia comune, cioè ognuno crede di saperla lunga e pertanto non ha più l’umiltà di dire “insegnami, spiegami, fammi vedere, dimmi come io appaio, come io sono”. Nessuno di noi è capace di vedere le proprie spalle… Invece ognuno ritiene di essere così sicuro delle sue verità che non sente più il bisogno del confronto, il bisogno di avere qualcuno che lo possa guidare in questo cammino. Si comincia già dalla scuola, dove gli studenti, in tanti casi, sono presuntuosi e i genitori difendono i figli presuntuosi invece di dire “prima di tutto impara, studia, confrontati, lasciati valutare, poi al tempo opportuno dirai anche la tua”. C’è soltanto la difesa della soggettività: questo impedisce in radice l’accompagnamento spirituale.
Ovviamente per ricevere una cura bisogna essere anche disposti a riceverla…
Bisogna riconoscersi malati.
Ecco, avere questa predisposizione interiore è necessaria anche per prendersi cura di qualcun altro: prendersi cura di qualcuno o lasciare che qualcuno si prenda cura di noi è qualcosa per cui vale la pena di spendersi?
La porta che conduce alla salvezza è una porta stretta. Mentre, dice Gesù, la via, la porta che conduce alla perdizione è larga. Quindi, istintivamente nessuno ha voglia di passare per la via stretta ed è molto più comodo rimanere nel proprio mondo autoreferenziato. È molto più comodo avere relazioni attraverso i social media che alla fine non sono impegnative perché le posso spegnere in qualsiasi momento e non mi coinvolgono sul serio. Così come è molto più comodo lasciare che ciascuno cuocia nel suo brodo… ma quali sono i risultati? Direi che lasciarsi curare è faticoso. È difficile tanto più quando uno non si riconosce malato e tanto più quando il paziente non ha voglia di essere curato perché è convinto di sapere quali sono le medicine da prendere. L’umiltà vera non è dire “io non sono capace”. L’umiltà vera è dire “senti, la mia vita non funziona, sono impaurito, sono angosciato, sono depresso… per piacere, aiutami”. Questa è la vera umiltà. Così come la vera carità è quella non di compiacere l’altro, ma di dire “guarda in faccia la tua vita: non funziona, stai male. Abbi il coraggio di riconoscerlo”. Tornando all’ambito medico, non è per niente simpatico dire a qualcuno “guardi, lei ha il cancro”. Però, se il cancro o un’altra malattia c’è, il vero atto di carità dire “guardi, lei è malato gravemente e bisogna correre rapidamente ai ripari”. Quindi, riconoscersi malati e curare i malati sono mestieri faticosi e su questo non c’è dubbio. Però la gioia della vita risanata ripaga abbondantemente. Per questo motivo io ringrazio il Signore di essermi preso a cuore delle persone perché vedo che anche a distanza di decenni rimangono grate, è bello vederle rinate e quindi si stabilisce una relazione sulla base della verità, della bontà, sulla base della vita e non sulla base di emozioni passeggere.
Lei in questi giorni ha incontrato i presbiteri della diocesi e i fedeli triestini a Sant’Antonio Taumaturgo. Quale augurio si sente di fare alla Chiesa e alla Città di Trieste?
Io penso che noi siamo una Chiesa con molte rovine. Siamo una società malata. L’augurio è quello di prendere sul serio il fatto che esiste la possibilità di ripartire, di cambiare, che non siamo vittime di un destino fatale, che anche oggi ci sono molte possibilità per vivere una vita umanamente significativa e cristianamente saporita. Così come ci sono molte possibilità di ripensare la nostra società: si tratta di decidere per che cosa spendere tempo, denaro ed energie.
A cura di Luisa Pozzar