Persona al Centro. Riferimento alla persona malata oltre che alla malattia. Prendersi cura. Confronto fra due soggetti nella costruzione di una relazione di cura Medico-Paziente. Tecnologia come strumento e non come fine. Svilupperei su questi punti una riflessione sul tema. Li lascio come spunti.
La costruzione di una relazione medico-paziente costituisce un confronto fra due soggetti, il paziente e il medico, che deve saper coniugare la competenza e la professionalità d’approccio con l’attenzione umana al malato, ai suoi vissuti di malattia, ai contesti sociali, culturali, spirituali di sofferenza.
Certo che, particolarmente nei contesti di cura per patologie acute, gli atti devono essere essenziali, rapidi ed efficaci. In questa fase la conoscenza e competenza del medico, il buon uso delle tecnologie sono certamente prioritari, ma l’approccio al malato in tutti i contesti, il colloquio, l’uso del linguaggio verbale e non, i gesti gentili, connotati di tenerezza, l’uso controllato delle parole, acquisiscono significato speciale nella costruzione di una relazione empatica. Non c’è appropriatezza dei trattamenti senza adeguatezza di una ricognizione colta, competente e umanamente consapevole dei problemi in medicina. Le organizzazioni sanitarie attuali, in una aspirazione d’efficientismo costante, obbligano all’essenzialità nell’uso del tempo, ma nella relazione con il malato e con la famiglia c’è un tempo di cura non sacrificabile all’incontro, ascolto, comprensione, informazione, costruzione di una relazione che è anche di fiducia medico-paziente. Il contributo della scienza al progresso della medicina e al miglioramento della cura delle malattie è fuor di dubbio. La mortalità per patologie come l’infarto miocardico acuto si è più che dimezzata negli ultimi 20 anni e i giorni di vita che si sono potuti aggiungere per la cura di patologie croniche come lo scompenso cardiaco, le aritmie, le complicanze del diabete sono rimarchevoli. La tecnologia, però, insieme a questo miglioramento, implica il rischio di frammentazione e di compartimentazione dei saperi (Morin). Come conseguenza, ogni medico iperspecialista diviene responsabile della sua particolare componente compartimentata con il rischio che la regia clinica globale del malato e dei suoi bisogni complessivi si indeboliscano. Ciò è particolarmente rilevante nell’approccio alla cronicità, all’anziano comorbido e fragile. È triste doverlo ammettere, ma c’è bisogno di restituire umanità alla medicina e dignità al malato. C’è bisogno di valorizzare il ruolo della Medicina Generale e della collaborazione in team fra specialisti. C’è bisogno di tempo per la famiglia.
Il tempo di cura è un problema, ma è anche un esigenza irrinunciabile. È stato segnalato che una visita duri mediamente meno di 8 minuti e che l’ascolto del paziente venga mediamente interrotto dopo 20 secondi. È evidente che in una gestione siffatta dell’incontro non potrà esserci comprensione della dimensione umana del soffrire e non potrà esserci costruzione di una relazione professionale e di fiducia fra i due soggetti che si confrontano. Dobbiamo interrogarci su questi aspetti. Dobbiamo interrogarci sull’umiltà d’approccio. Dobbiamo avere consapevolezza della possibilità dell’errore in medicina e sulla necessità di una metodologia di ricognizione, analisi critica e progetto di miglioramento. L’università e la società hanno un ruolo importante. “Coniugare l’algoritmo con il samaritano” nella relazione di cura nell’era dell’intelligenza artificiale: un invito di un Vescovo che ho ascoltato di recente e che mi pare sintetizzi bene l’epoca che stiamo vivendo e che dobbiamo impegnarci a costruire.
Gianfranco Sinagra