Dalle catene della malattia alla dignità: il metodo Grégoire

Intervista a Grégoire Ahongbonon, "il Basaglia dell'Africa" in occasione del suo passaggio a Trieste il 14 ottobre

Trieste sta per tuffarsi in uno splendido tramonto. Sono le pietre delle sue case e il selciato delle sue strade a raccontare le tante storie di persone che per lunghi anni, nell’Ospedale Psichiatrico di San Giovanni, hanno vissuto una dolorosa segregazione e poi, dopo una vera e propria rivoluzione, hanno camminato, insieme al proprio disagio, lungo vie e vicoli, sempre in bilico tra cure, difficoltà, ma anche speranze e occasioni di riscatto umano e sociale. Un’intera comunità cittadina ha imparato a conviverci a onde alterne: talvolta includendo, talvolta escludendo nuovamente. Imparando, forse, a voler loro bene o almeno a guardare a loro con occhi diversi.

È qui che approda, in un martedì di ottobre, Grégoire Ahongbonon, “il Basaglia dell’Africa”. Lo rivedo dopo alcuni anni in cui tante cose sono accadute. Ma in quegli occhi e in quel volto riconosco la luce di sempre. Grégoire, originario del Benin, non è né un medico, né un sacerdote, ma un uomo di 73 anni, già gommista e gestore di taxi per mestiere, sposato e padre di sei figli, che da 35, con sua moglie e l’Associazione “Saint Camille de Lellis” che insieme hanno fondato, si prende cura delle persone con disagio psichico in Africa, lì dove il disturbo mentale è ben più di uno stigma sociale, perché considerato frutto di una possessione diabolica. Una maledizione, insomma.

Dietro a tutto questo c’è un fattore culturale molto radicato, la mancanza di medici e strutture di cura, ma anche una profonda solitudine: quella in cui si trovano le famiglie che devono fare i conti con il disturbo mentale di un figlio o di una figlia, soli e abbandonati, con nessun servizio di cura psichiatrico a disposizione. Basti pensare, per esempio, che in Costa d’Avorio, che ha una superficie pari a quella dell’Italia, oggi esistono solo due ospedali psichiatrici in tutto il Paese. Impaurite, sole e senza nessuno che possa offrire una cura, le famiglie spesso incatenano o chiudono in ceppi i propri propri figli malati in zone isolate dei villaggi e li lasciano lì. Oppure, pronte a tutto pur di avere un possibilità di cura, si affidano a sedicenti “pastori” o “stregoni” delle tante sette presenti in Africa, che su questa disperazione hanno costruito il tragico business dei campi di preghiera: in cambio di denaro – per coprire i costi della catena e per un loro guadagno – incatenano queste persone malate in campi all’aperto, li lasciano sotto il sole e la pioggia senza né cibo né acqua e li picchiano violentemente perché, dicono, affinché lo spirito maligno esca da loro, è necessario far soffrire il corpo. Per questi malati, alla sofferenza del disagio psichico, quindi, si aggiunge anche la sofferenza per l’abbandono, le umiliazioni e le violenze che sono costretti a subire. Ovviamente senza alcun esito né speranza.

O almeno era così fino a quando Grégoire, dopo un percorso personale difficileda una buona stabilità economica conquistata negli anni, ha improvvisamente perso tutto quello che aveva e si è trovato nella miseria – grazie a un sacerdote che lo ha ascoltato e aiutato, ha ritrovato la fede e nel corso di un pellegrinaggio a Gerusalemme, offertogli proprio da questo sacerdote, durante un’omelia ha capito che ogni cristiano deve partecipare alla costruzione della Chiesa posando una pietra: la propria.

«Ho cominciato a chiedermi: qual è la mia pietra da posare? E, una volta tornato in Africa, iniziai a condividere con mia moglie ciò che provavo nel profondo del mio cuore. Insieme a lei abbiamo iniziato a cercare “la nostra pietra”. Ed è nata l’idea di creare un gruppo di preghiera».

Nella foto, Grégoire Ahongbonon durante l’intervista

La straordinaria esperienza che ha vissuto da lì in poi, lo dice lui, è frutto di quel pellegrinaggio.

«Un giorno abbiamo portato proprio questo gruppo di preghiera all’ospedale civile locale con l’obiettivo di visitare i malati e pregare con loro. E durante la visita, in una sala, abbiamo trovato dei malati che erano stati completamente abbandonati, senza alcuna cura. Da noi in Africa non esiste la previdenza sociale: se sei malato, vai in ospedale e non hai soldi, non ricevi cure. E ancora oggi, se hai un grave incidente sulla strada pubblica, i pompieri vengono a prenderti e ti mandano in ospedale, ma se non hai un parente che viene a sapere della cosa e corre a pagare, rimani lì fino alla morte: nessuno ti toccherà. Capisce che i poveri non hanno molte possibilità di vivere in Africa… quindi, di fronte a questi malati che erano stati abbandonati, abbiamo pensato che la prima cosa da fare fosse dimostrare loro la nostra amicizia, il nostro amore».

E così iniziano a darsi da fare: «Prima di tutto abbiamo iniziato a lavare quelli che erano in buona salute. Poi, abbiamo iniziato a lavare quelli che erano in condizione di totale abbandono… Abbiamo cercato a destra e a manca le medicine per poterli curare. E poco a poco, rapidamente, abbiamo iniziato a vedere i risultati: molti di questi malati hanno iniziato a ritrovare la salute. E, grazie a Dio, molti di loro sono guariti. Quelli che morivano, almeno morivano con dignità, come ogni uomo dovrebbe poter fare.

Lì abbiamo capito perché Gesù si è identificato con i poveri e i malati. Ed è da lì che abbiamo deciso di cercare Dio nei poveri».

Da quel momento, in modo miracoloso, il lavoro di Grégoire riprende ad andare per il verso giusto e lui inizia nuovamente ad avere del denaro a disposizione: «Ma questa volta non per mantenere i miei taxi, bensì per fare agli altri ciò che è stato fatto a me. E, volendo cercare Dio nei poveri, abbiamo iniziato ad andare nelle prigioni. Poi siamo andati dai bambini di strada. Poi dai lebbrosi. Ed è nel 1990 che inizia la storia dei malati mentali».

Ad oggi Grégoire, con la sua Associazione, ha liberato oltre 200mila persone con disturbo mentale in Africa. Sono per lo più giovani e una volta guariti vengono mandati a studiare dove possono formarsi come infermieri professionali o medici. E scelgono di tornare poi a prendersi cura dei loro amici malati. E ciò che ancora oggi non fa la sanità dei paesi africani in cui Grégoire opera, lo fanno i centri da lui fondati: quattro in Costa d’Avorio, cinque in Benin, tre in Togo, uno in in Burkina Faso e uno in Ciad. Con l’intenzione di aprirne uno anche in Nigeria – dove l’emergenza è dettata non solo dalle tantissime persone con disturbo mentale e dalla loro emarginazione violenta, ma dall’uccisione di queste per prelevarne gli organi e immetterli nel traffico illegale internazionale – e una nuova prima esperienza in Benin con l’apertura, avvenuta un anno e mezzo fa, dell’unico centro per tossicodipendenti dell’Africa occidentale.

Il carburante di tutto questo? La fede, la Provvidenza, la Messa e la Comunione quotidiana: «Dico che sono come un tabernacolo ambulante. Perché sono sempre con il Signore. Ed è come se qualcuno dietro di te ti spingesse».

Luisa Pozzar

Se vuoi leggere l’intervista integrale a Grégoire Ahongbonon, clicca qui.

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