Trieste sta per tuffarsi in uno splendido tramonto. Sono le pietre delle sue case e il selciato delle sue strade a raccontare le tante storie di persone che per lunghi anni, nell’Ospedale Psichiatrico di San Giovanni, hanno vissuto una dolorosa segregazione e poi, dopo una vera e propria rivoluzione, hanno camminato, insieme al proprio disagio, lungo vie e vicoli, sempre in bilico tra cure, difficoltà, ma anche speranze e occasioni di riscatto umano e sociale. Un’intera comunità cittadina ha imparato a conviverci a onde alterne: talvolta includendo, talvolta escludendo nuovamente. Imparando, forse, a voler loro bene o almeno a guardare a loro con occhi diversi.
È qui che approda, in un martedì di ottobre, Grégoire Ahongbonon, “il Basaglia dell’Africa”. Lo rivedo dopo alcuni anni in cui tante cose sono accadute. Ma in quegli occhi e in quel volto riconosco la luce di sempre. La cordialità che lo contraddistingue si sposa perfettamente con il suo francese pulito e molto comprensibile: don Paolo Zuttion, suo amico da una vita, accompagna e sostiene il dialogo traducendo per noi.
Grégoire, può raccontarci qualcosa sulla sua vita?
Sono originario del Benin, sono nato il 12 marzo 1952 e ho ricevuto il Battesimo il 30 marzo dello stesso anno perché mio padre era già cristiano e ho vissuto come un giovane cristiano nel mio villaggio. Devo riconoscere che ho sempre avuto un grande amore per Dio e ho sempre amato molto la Chiesa. Dio era il mio unico riferimento. Ho fatto solo le scuole elementari e nel 1971 sono partito per la Costa D’Avorio e lì ho imparato il mestiere di gommista: un lavoro in cui, devo dire, ho avuto molta fortuna perché a 23 anni possedevo già una mia automobile personale e avevo anche quattro taxi. Aggiungo che sono sposato e sono padre di sei figli. Quindi non sono un sacerdote e nemmeno un medico.
In quegli anni in Costa D’Avorio successe qualcosa di particolare?
Devo dire che lì, di fronte alla fortuna e di fronte al denaro ho abbandonato Dio e la Chiesa e ho cominciato a vivere la mia vita come tutti. Non ho condotto una vita dissoluta: cercavo solo di far fruttare i soldi che guadagnavo. Non mi piaceva né mi piace bere o altre forme di alienazione. Avevo una vita abbastanza equilibrata. Ma da un giorno all’altro ho perso tutto: non ho capito come, ma ho perso tutto. Tutti i miei taxi hanno iniziato ad avere incidenti. E alla fine ho perso tutto. Ho perso così tanto che stavo per togliermi la vita. Ho iniziato a condurre una vita molto, molto miserabile.
E poi?
Quando avevo i soldi, avevo molti amici, avevo molti compagni. Ma quando ho perso tutto, tutti mi hanno abbandonato. Mi sono rimasti solo mia moglie e i due figli che avevo all’epoca. È stato il momento più terribile della mia vita. Ho iniziato a farmi altri amici, ma questi mi volevano solo attirare nella loro chiesa. Perché da noi, in Africa, ci sono molte sette. Io, però, dicevo sempre a tutti che ero stato battezzato come cristiano cattolico e per me la religione non è una camicia che si abbandona di fronte alle prove o alle difficoltà: preferivo morire nella mia sofferenza piuttosto che cambiare chiesa. Questa sofferenza mi ha permesso di incontrare un sacerdote missionario. Un po’ come nella storia del figliol prodigo, il Padre mi ha accolto con grande generosità, ha iniziato a dedicarmi tutto il suo tempo per ascoltarmi. E allo stesso tempo ha iniziato a sostenermi, ad aiutarmi. Nello stesso periodo, lo stesso sacerdote stava organizzando un pellegrinaggio a Gerusalemme. Mi ha pagato il biglietto e mi ha mandato a Gerusalemme. Tutto ciò che vivo oggi deriva da quel pellegrinaggio.
Perché? Cosa successe a Gerusalemme?
Durante quel pellegrinaggio lo stesso sacerdote un giorno disse nella sua omelia che ogni cristiano deve partecipare alla costruzione della Chiesa posando una pietra. Per me fu come un’illuminazione: perché lì capii che la chiesa non è solo affare di sacerdoti e suore. E ho cominciato a chiedermi: qual è la mia pietra da posare? Questa frase mi colpì così tanto che, una volta tornato in Africa, iniziai a condividere con mia moglie ciò che provavo nel profondo del mio cuore. E insieme a lei abbiamo iniziato a cercare “la nostra pietra”. Proprio mentre eravamo in ricerca, è nata l’idea di creare un gruppo di preghiera.
E dalla preghiera è nato qualcosa di importante…
Un giorno abbiamo portato proprio questo gruppo di preghiera all’ospedale civile locale con l’obiettivo di visitare i malati e pregare con loro. E durante la visita, abbiamo trovato in una sala dei malati che erano stati completamente abbandonati, senza alcuna cura. Da noi in Africa non esiste la previdenza sociale: se sei malato, vai in ospedale e non hai soldi, non ricevi cure. E ancora oggi, se hai un grave incidente sulla strada pubblica, i pompieri vengono a prenderti e ti mandano in ospedale, ma se non hai un parente che viene a sapere della cosa e corre a pagare, rimani lì fino alla morte: nessuno ti toccherà. Capisce che i poveri non hanno molte possibilità di vivere in Africa… quindi, di fronte a questi malati che erano stati abbandonati, abbiamo pensato che la prima cosa da fare fosse dimostrare loro la nostra amicizia, il nostro amore.
Cosa avete fatto concretamente?
Prima di tutto abbiamo iniziato a lavare quelli che erano in buona salute. Poi, abbiamo iniziato a lavare quelli che erano in condizione di totale abbandono… Abbiamo cercato a destra e a manca le medicine per poterli curare. E poco a poco, rapidamente, abbiamo iniziato a vedere i risultati: molti di questi malati hanno iniziato a ritrovare la salute. E, grazie a Dio, molti di loro sono guariti. Quelli che morivano, almeno morivano con dignità, come ogni uomo dovrebbe poter fare. Lì abbiamo capito perché Gesù si è identificato con i poveri e i malati. Ed è da lì che abbiamo deciso di cercare Dio nei poveri.
A quel punto è cambiato qualcosa…
Da quel momento, in modo miracoloso, i miei affari hanno ripreso ad andare bene. Ho iniziato ad avere nuovamente soldi. Ma questa volta non per pagare i miei taxi, bensì per fare agli altri ciò che è stato fatto a me. E volendo cercare Dio nei poveri, abbiamo iniziato ad andare nelle prigioni. Poi siamo andati dai bambini di strada. Poi dai lebbrosi. Cerchiamo sempre di andare dai più poveri. Ed è nel 1990 che inizia la storia dei malati mentali.
Qual è la loro condizione in Africa?
In Africa i malati mentali sono i dimenticati tra i dimenticati (les oubliés des oubliés). Sono abbandonati da tutti. Sono nudi per strada. Mangiano dai bidoni della spazzatura. Sono considerati persone possedute dal diavolo. Vengono picchiati. Tutti hanno paura di loro. Anche io, che vi sto parlando, avevo paura dei malati mentali. Li vedevo come tutti gli altri, passavo oltre a loro come tutti gli altri: come tutti gli altri avevo uno stigma nei loro confronti.
E come è arrivato, allora, a dedicare loro la sua vita?
Nel 1990, passando per una strada di Bouaké, vidi un malato mentale, nudo. Mangiava quello che trovava rovistando nella spazzatura. Quel giorno mi sono fermato e ho iniziato a guardarlo. E guardandolo, ho iniziato a pensare: ma è Gesù che io cerco nelle chiese! È lui, Gesù, che soffre in persona attraverso questi malati. Mi ricordai, però, che queste persone mi facevano paura. E, come se ci fosse qualcuno che parlasse dentro di me, sentii: “Ma se per te rappresenta la persona di Gesù, perché ora averne paura?”. Da quel giorno, ho iniziato a camminare per strada ogni notte per vedere dove dormivano. E incontrandoli, ho iniziato a capire che erano uomini, donne e bambini che cercavano di essere amati come tutti gli altri. Incontrandoli, ho capito che avevano bisogno, come tutti noi, di essere amati. Ne ho parlato con mia moglie, che ha deciso di venire con me. E ogni notte passavamo a trovare ognuno di loro, per dare loro da mangiare e acqua fresca da bere. Rapidamente si è creato un legame di amicizia tra noi e questi malati. Un giorno, però, mi sono detto: a che serve andare a dare da mangiare a qualcuno per strada? Io vado a dormire in una casa, eppure dico che quelle persone sono Gesù. Vede, nell’ospedale civile dove visitavamo i malati, c’era una piccola cappella. In quella piccola cappella abbiamo sistemato i primi malati, trattandoli con dignità, come esseri umani. Naturalmente, anche con l’aiuto dei medici e con dei farmaci. E rapidamente iniziammo ad avere risultati che sorpresero tutti.
Le autorità sanitarie come vedevano questa vostra opera?
Nel 1993 il ministro della sanità venne in visita in questo ospedale e il direttore lo accompagnò a scoprire questa esperienza. Quando il ministro vide tutto ciò, era così contento che ci disse: “Mi auguro che la vostra associazione si diffonda rapidamente in tutti gli ospedali del Paese, perché di fronte alla malattia mentale non sappiamo davvero cosa fare”. Visto che era molto interessato, gli abbiamo chiesto se poteva darci un terreno all’interno dell’ospedale per costruire il nostro centro. Ce lo concesse. E quando riuscimmo a costruire il nostro primo centro, iniziammo a raccogliere tutte i malati che erano per strada. Visti i risultati che continuavamo a ottenere, i sacerdoti nei villaggi e le famiglie iniziarono a chiamarci. E alla vigilia della festa della Domenica delle Palme del 1994 successe qualcosa di importante.
Può raccontarcelo?
Una signora venne a trovarci al centro e ci disse: “Aiutatemi, mio fratello è malato di mente”. Dopo chilometri, siamo arrivati al suo villaggio. E quando siamo arrivati, il padre di questa signora iniziò a piangere: “Perché hai portato questi uomini qui? Non sai che tuo fratello è completamente malato di mente? Andate via, non serve a niente”. Gli dissi che se anche se suo figlio era malato di mente, io volevo vederlo. Ma il padre continuava a piangere e a dirci di andarcene. A quel punto dissi che avrei chiamato la polizia e lui, spaventato, andò dal capo del villaggio. La decisione finale fu quella di aprire la porta. Quello che vidi quel giorno mi ha sconvolto, mi ha scioccato. Mi ha rivoltato così tanto che non potevo immaginare.
Cosa vide?
Un giovane, bloccato a terra, come Gesù sulla croce. Entrambi i piedi su un tronco ed entrambe le braccia legate con fili di ferro. Ma con gli arti completamente marci e lui pieno di piaghe da decubito. Così come eravamo venuti non potevamo fare nulla e siamo dovuti tornare indietro. Era la Domenica delle Palme. Abbiamo chiesto aiuto a una suora infermiera e abbiamo trovato degli educatori che ci hanno dato delle cesoie. Siamo tornati da questo giovane e con difficoltà siamo riusciti a liberarlo. Quando siamo arrivati al nostro centro, dopo aver finito di pulirlo, abbiamo visto che tutto il suo corpo era marcio. Mi guardò: “Non so come dire grazie a Dio. Come posso ringraziarvi?” E ancora: “Non so cosa ho fatto per meritare questo trattamento dai miei stessi genitori… Posso ancora vivere?” Sì, aveva ancora voglia di vivere, ma era così malridotto che è morto poco dopo. Ma almeno è morto con dignità. Si chiamava Konam Kouakou.
Da lì in poi cosa è cambiato per voi?
Abbiamo iniziato a scoprire diversi metodi di incatenamento. A volte i malati venivano incatenati al collo, a volte a entrambe le braccia, a volte a entrambi i piedi… Cose che non avremmo mai potuto immaginare ai nostri tempi. Ma io dico sempre che non è colpa delle famiglie. Di fronte alla malattia psichiatrica non sanno cosa fare ed è con grande sofferenza che incatenano i loro figli. Da noi, in Africa, gli ospedali psichiatrici sono molto rari. In Costa d’Avorio, che ha una superficie quasi pari a quella dell’Italia e nella quale abbiamo iniziato questa attività, ci sono solo due ospedali psichiatrici in tutto il Paese. E se non hai soldi, non ti ricevono, qualunque sia la crisi del tuo malato. Ancora oggi è così. In Benin c’è un solo ospedale psichiatrico per tutto il Paese. Ci sono Paesi in Africa dove non c’è nemmeno uno psichiatra. Quindi i malati mentali sono i dimenticati tra i dimenticati. Io non ce l’ho con i genitori che incatenano il malato… ma ciò che fa male, che fa ribellare, sono le sette che, dietro pagamento in denaro -che serve a pagare la catena e a dare un “compenso” a questi sedicenti pastori) – incatenano i malati e li lasciano sotto la pioggia, sotto il sole. Perché la malattia mentale è vista come una possessione demoniaca. Allora questi “pastori”, questi stregoni, ecc. dicono di avere la capacità di scacciare il diavolo e per farlo dicono che bisogna far soffrire il corpo.
E quindi cosa fanno a questi malati?
Dopo averli incatenati, li picchiano e li privano di acqua e cibo. Devono passare giorni senza mangiare, senza bere. È questo che fa ribellare. Gli uomini come le donne, è lo stesso. Fanno così anche con i bambini, perché anche l’epilessia è considerata come una possessione…
Una realtà davvero inimmaginabile…
Oggi che come Associazione Saint Camille de Lellis abbiamo costruito dei centri, la situazione è profondamente cambiata. Le famiglie portano i malati nei centri e non più dagli stregoni. E siamo riusciti a mettere in piedi qualcosa di straordinario: sono i malati che, una volta guariti, curano gli altri malati. La maggior parte dei malati sono giovani e, una volta guariti, li mandiamo a studiare per diventare infermieri diplomati che poi vengono da noi a curare i loro amici malati. Vede… noi non siamo diversi dai malati di mente. Le dico di più: è più facile vivere con i malati di mente che vivere con i sani.
Perché?
Perché hanno un amore profondo, molto profondo. Sono persone che amano condividere la loro sofferenza. Oggi, in Costa d’Avorio, ci sono quattro nostri centri. In Benin ce ne sono cinque. In Togo ce ne sono tre. In Burkina Faso ce n’è uno. E c’è anche un’unità in Ciad. Da poco abbiamo avviato un’altra esperienza: quella con i tossicodipendenti. È da un anno e mezzo che abbiamo iniziato. In Benin abbiamo aperto l’unico centro per tossicodipendenti dell’Africa occidentale.
Quanti volontari avete coinvolto in tutti questi anni?
A parte i malati che lavorano, di volontari – intendendo quelli che non si sono mai ammalati – posso dire che ce ne saranno in tutto una decina. Sono i malati stessi che costituiscono il nostro gruppo di volontari. In questi anni più di 200mila persone sono già state liberate, ma ce ne sono ancora molte da liberare in Africa. È un continente molto grande ed è pieno di malati. C’è bisogno di aprire un centro anche in Nigeria… dobbiamo trovare il terreno e i soldi per costruirlo.
Perché proprio in Nigeria? Il problema di fondo è sempre culturale?
Per i malati mentali il problema culturale esiste in modo uguale in tutta l’Africa. Il problema della Nigeria, invece, è che molti di questi malati vengono uccisi. Vengono uccisi per prelevare i loro organi e ricavarne denaro. Le dico anche un’altra cosa: ci sono molti stregoni o maghi che dicono a coloro che vanno a consultarli: “Se riesci ad avere un rapporto sessuale con una pazza che è per strada, avrai molto denaro”. Purtroppo, ci sono molti casi in cui una donna malata si trova per strada… per questo molte donne malate di mente vengono violentate. E a volte vengono anche uccise.
Quando lei va ad incontrare una persona malata, incatenata, la prima domanda che le fa è: “Vuoi essere liberato?” e una volta che l’ha liberata, ecco la seconda domanda: “Sei felice di essere libero?” Ci racconta qualcosa su questo?
Le persone sono contente di essere finalmente liberate e libere. Ricordo una volta in cui sono rimasto particolarmente colpito. Sono andato a incontrare un malato in un villaggio: in quel caso era il polso ad essere bloccato sul legno. Quando sono arrivato, gli ho detto: “Sono venuto per liberarti da questo legno”. E lui mi ha detto: “Venite a liberarmi? No, non posso credervi. Se i miei stessi genitori mi hanno messo in questo stato, non sarete voi che non mi conoscete a venirmi a liberare”. Dopo essere stato liberato, gridava di gioia dicendoci che eravamo degli angeli. Con la persona che viene liberata si crea una fiducia reciproca, una relazione molto profonda.
E poi le chiama per nome, vero?
Sì, io chiamo sempre queste persone per nome. Questo malato di cui ho raccontato si chiama Christian. Era un ottimo studente in Francia. La famiglia lo aveva mandato lì per studiare e a un certo punto ha iniziato ad avere dei problemi mentali. Hanno provato a curarlo in Francia, ma non ci sono riusciti, così lo hanno rimpatriato. La famiglia lo ha mandato in un ospedale psichiatrico: hanno cercato di curarlo, ma a un certo punto non ha più camminato. Poi sono andati da dei guaritori, da molti guaritori, ma non ha funzionato… E così alla fine l’unica scelta che avevano era bloccarlo con un ferro su un tronco di legno.. È rimasto così per sei anni.
E poi?
Dopo che lo abbiamo liberato ed è stato curato nel nostro centro, si è ritrovato. È andato a fare degli stage in Canada ed è tornato molto felice. Ora lavora.
Se si guarda indietro, se guarda a tutti questi anni di attività, cosa vede?
Mi rendo conto che sto vivendo un’esperienza che supera quella di chiunque altro. Oltretutto come Associazione viviamo solo di Provvidenza. Non abbiamo alcuna sovvenzione dalle nostre autorità in Africa: da loro riceviamo solo applausi… ma noi in tutto questo che abbiamo potuto fare vediamo la grazia di Dio. Abbiamo capito che Dio ha tutto ciò che serve per prendersi cura di questi poveri. Va a cercare chi vuole, quando vuole, nel momento in cui vuole per continuare la sua opera.
Ma lei, Grégoire, da dove prende tutta questa energia? Soprattutto adesso che non ha più vent’anni e l’età avanza, come fa a continuare e ad avere la forza per farlo?
Vado a Messa e faccio la Comunione ogni giorno. Dico sempre che sono come un tabernacolo ambulante… sono sempre con il Signore. Ed è come se qualcuno dietro di te ti spingesse. Come le dicevo prima, ora stiamo cercando di aprire un altro centro in Nigeria. E posso dirle che oggi c’è una comunità religiosa, nata all’interno dell’Associazione, che è riconosciuta dall’arcivescovo di Cotonou. Tra questi giovani, ce n’è uno che è diventato sacerdote un anno fa. E ce ne sono due che andranno in seminario quest’anno: erano entrambi malati.
Veniamo a oggi: lei è qui a Trieste per la prima volta?
No, non è la prima volta. Già nel 1998 sono stato qui, invitato a un Congresso internazionale di psichiatria nel quale anch’io avevo tenuto una conferenza. Poi ho ricevuto il premio come miglior esperienza internazionale di cura per le persone con disagio psichico: mi consegnarono una statuetta in miniatura di Marco Cavallo, il simbolo della rivoluzione basagliana.
Nel corso degli anni, proprio nel Parco di San Giovanni, grazie al lavoro di una Cooperativa Sociale è stato piantato un roseto: il più grande d’Italia, con 6mila piante di rose di 3mila varietà diverse. Un simbolo forte: un luogo in cui le persone erano emarginate e rinchiuse ora è ricreato, è rifiorito. Anche lei nella sua opera vede le persone malate rifiorire?
Certo che le vedo fiorire. Perché incontri persone che erano distrutte, che non avevano alcuna speranza e vedi che riprendono la vita, che riprendono un’attività, ritrovano la speranza e la serenità e fioriscono. La dignità dell’uomo non ha prezzo. È molto preziosa. Vede, una volta sono stato in Francia e mi hanno portato in un centro: non è un luogo dove i malati sono ricoverati, ma un centro dove svolgono piccole attività. Vengono lì a bere un caffè, a giocare, ecc. Ecco, ho fatto vedere loro documentario in cui si vedono dei malati incatenati e bloccati nel bosco in Africa. Quando il film è finito, la reazione di questi pazienti mi ha colpito. Non sono stati il bosco e le catene a colpirli, ma hanno detto: “Guardate l’Africa! Lì ci sono malati che lavorano. Qui, invece, ci pagano per non disturbare!”. Sa, il modo migliore per uccidere un uomo vivo è pagarlo e non fargli fare nulla. I malati hanno la possibilità di fare tutto quello che facciamo noi. Non c’è bisogno di privarli del lavoro: dico sempre che la prima medicina per il cervello è l’occupazione.
In questi giorni incontrerà anche dei medici. Non è la prima volta…
Ci sono diversi medici che vengono regolarmente in Africa. Francesi, italiani, canadesi e americani.
Loro, immagino, partano da una visione medica della malattia. Hanno studiato sui libri, sui manuali e sicuramente hanno una pratica clinica nel proprio Paese. Ma quando arrivano lì e vedono qual è il vostro lavoro che si basa su altri principi, quali l’amore e la restituzione della dignità, come reagiscono? Li vedete cambiare?
Devo dire che ci sono molti medici che hanno capito che per curare i malati psichici non bastano solo le medicine. C’è uno psichiatra canadese, il dottor Benoit, che ha scritto un libro sull’Associazione Saint Camille e tiene molte conferenze su questa esperienza. E poi c’è il dottor Bertoli, Direttore del Dipartimento di salute mentale dell’Azienda Sanitaria del Friuli Centrale, che viene in Africa ogni anno dal 1996. Dice sempre che è stata un’esperienza che lo ha segnato, che ha cambiato molte cose nella sua vita. I medici tornano a casa con un bagaglio diverso alla luce della nostra esperienza e, allo stesso tempo, ci sostengono con le loro conoscenze. Sapete, dico sempre che nessuno ha il monopolio della psichiatria nel mondo: cercano di aiutarci, di condividere con noi ciò che noi non conosciamo.
In Africa, lo diceva prima, ci sono tanti malati che hanno ancora bisogno di essere liberati e curati. Di cosa c’è più bisogno?
È certo che abbiamo bisogno di mezzi per poter progredire ulteriormente. Ma il mio desiderio è che ognuno di noi cambi mentalità nei confronti dei malati mentali. Anche in Europa, perché lo stigma è molto resistente. La malattia non è del malato e basta. Quando vedo una donna incatenata, vedo l’immagine di mia madre, vedo l’immagine di tutte le donne del mondo. Quando vedo un uomo incatenato, vedo la mia immagine. È l’immagine dell’umanità intera. E dico che, proprio come la malattia mentale rappresenta una vergogna per le famiglie in Africa, dovrebbe essere una vergogna per l’umanità. Perché è la nostra immagine a essere calpestata. Si parla di diritti umani… Allora, questi malati non sono esseri umani? Queste donne non sono esseri umani? Questi bambini, a causa della malattia, vengono incatenati. Perché fino al terzo millennio? Per questo penso che la cosa più importante sia il cambiamento di comportamento dell’umanità nei confronti dei malati mentali. Sono molti nelle strade d’Europa. Cosa facciamo per aiutarli?
Il vescovo di Trieste ha da poco inviato una lettera pastorale alla Diocesi sul tema della cura. Quale augurio di sentirebbe di fare alla comunità cristiana di Trieste e alla Città proprio sul prendersi cura delle persone con disagio mentale?
Penso che sia importante che i fedeli, i cristiani e anche i non cristiani, conservino questa immagine di Franco Basaglia. È importante innanzitutto conoscere quello che lui ha fatto e poi impegnarsi. In questo momento la città deve custodire questo tesoro nella conoscenza di ciò che è accaduto, della storia di Franco Basaglia e di coloro che con lui hanno portato avanti questa nuova visione della cura della malattia mentale. Penso, poi, che sia importante che ciascuno inizi a dimenticare un po’ se stesso per potersi rivolgere a quelle persone che sono state dimenticate da tutti: dimenticare se stessi per andare verso coloro che soffrono. E non dobbiamo dimenticare Cristo. Avete un tesoro a Trieste, un grande tesoro che Franco Basaglia vi ha lasciato. Non dimenticatelo mai.
A cura di Luisa Pozzar
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