Aiuto, aiuto! … Giobbe, ossia lo scandalo del dolore

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L'editoriale di questa settimana di don Marco Eugenio Brusutti.

Nei giorni scorsi, sono stato a trovare un ammalato in una Casa di riposo. Improvvisamente, da una stanza vicina, sento urlare “Aiuto! Aiuto!”. Alcune persone presenti mi rassicurano: “Lasci stare, padre, grida sempre così!”.

Mi sono, allora, chiesto: “Perché questa voce femminile continua a gridare aiuto?”. Dopo essermi congedato, entro timidamente nella stanza e scopro una signora, tutta concentrata nel suo dolore. Le domando: “Signora ha bisogno di qualcosa?” La risposta è terribile: “Padre muoio di solitudine!” Inizio, allora, a parlare con lei che, con lucidità, mi racconta la sua storia di vita: una maestra elementare che ha fatto la gavetta nei vari Comuni del Friuli, chiamata dall’allora podestà, il sindaco del paese, a svolgere il ruolo di maestra comunale.

Subito mi viene in mente Giobbe: il simbolo universale del dolore e della sofferenza. Nella sua figura ci sono degli aspetti che possono essere vissuti e ritrovati da tutti gli uomini: l’imprecazione, l’esasperazione, l’abiezione, l’urlo di disperazione. Penso che la conoscenza della storia di Giobbe mi abbia aiutato anche a entrare in sintonia con la sofferenza di quella maestra che stava vivendo l’esperienza dell’essere sola, in un letto di una Casa di riposo, lo sguardo fisso al soffitto e alla finestra, sperando e aspettando un saluto umano. La dimensione fisica del patire, dell’essere colpiti da un dolore, da una disgrazia, come l’impossibilità di muoversi e dell’essere minimamente autonoma di quella maestra, può diventare anche paralisi della realizzazione di sé, nello spazio del mondo.

Pathos vuol dire proprio sofferenza, sventura, infelicità, infermità dell’animo … Terribile e incredibile, indecente e mostruosamente umano è il dolore, mai prevedibile. Porta alla sofferenza, dopo che il danno è avvenuto. Ci fa sentire perduti, discriminati, privi della nostra appartenenza umana universale, vivi, ma obbligati, chiamati a seguire l’obbligo del dolore.

Ma c’è poi anche un modo con cui si soffre e questo modo cambia a seconda della nostra esperienza, della nostra cultura, della nostra fede. La ricerca di senso nel dolore può diventare conoscenza della sofferenza. Giobbe è, quindi, il simbolo non della sofferenza, ma del modo di patire: Giobbe che si lamenta, Giobbe provocatore. Nell’antico mondo greco si soffriva diversamente da Giobbe e così nel mondo orientale, perché diverso il senso. È importante dare un senso al dolore, dibattere, relazionarsi con il nostro dolore e con quello dell’altro, perché questo porta a un senso collettivo, ad un’esperienza collettiva.

La maestra mi ha permesso di entrare nel suo dolore, nell’esperienza soggettiva, che dà senso anche alla mia vita di cristiano, di prete, ma anche di uomo civile, cioè che vive la società, una società che cerca sempre più di nascondere il dolore, il dolore degli altri, di confinarlo nell’esperienza di un altro e non del collettivo. L’esperienza del dolore di Giobbe diventa vita. Lo è stato per il mondo ebraico, lo è per quello cristiano, sempre diverso e sempre nuovo e questo ci apre alla dimensione e al rapporto che credenti e non credenti hanno con il dolore. Ma il vero problema sta nel vedere o nel non voler vedere il dolore che esiste, che fa parte della nostra società, di ogni persona e chiedersi se vi sia la possibilità di scambiarsi l’esperienza del senso del patire.

La maestra, per un’ultima volta, dalla sua cattedra, ci richiama e invita a spiegare, a conoscere, a condividere l’incomunicabilità oppure la condivisione, la compartecipazione, la compassione del dolore stesso. Purtroppo il carattere peculiare di chi vive il dolore è la separazione. Nel soffrire, poi, si può diventare unici o abbandonati: unico se vengo riempito dall’amore, sostenuto nell’amore; abbandonato quando non si è più amati. La domanda è quindi: il dolore può diventare morte prima della morte stessa? È solo mia la morte o posso trovare altri uomini e altre donne, tutti figli di Dio, tutti uguali, perché tutti partecipi della stessa esperienza anche del dolore, che può non diventare morte?

don Marco Eugenio Brusutti

Di Fra Bartolomeo – AA.VV., Galleria dell’Accademia, Giunti, Firenze 1999


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