“Un silenzio che grida”

Il cardinale Charles Maung Bo racconta la risposta della Chiesa alla crisi in Myanmar dopo il terremoto che ha colpito il Paese lo scorso 28 marzo

Il terremoto ha aggravato le sofferenze della popolazione del Myanmar. I cattolici sono circa 800mila in un Paese in cui più dell’80% della popolazione è buddista, e continuano ad essere fermento di vita in termini di accoglienza, collaborazione, di dialogo civile, culturale e interreligioso. Abbiamo sentito il card. Charles Maung Bo, arcivescovo di Yangon, presidente della Conferenza episcopale del Myanmar (Cbcm) e della Federazione delle Conferenze episcopali asiatiche (Fabc).

Eminenza, a più di due mesi dal terremoto, può spiegare come la Chiesa è attiva in aiuto alle persone colpite?
La Chiesa è stata in prima linea nel tendere la mano alla popolazione. In molte località, anche le infrastrutture ecclesiali e i dintorni sono stati profondamente colpiti. Eppure, subito dopo il terremoto, la gente si è riversata nelle chiese per cercare sicurezza e riparo. I luoghi sacri, nonostante le ferite, hanno offerto un rifugio sicuro.

La Chiesa si è rivelata un “guaritore ferito”, sapendo che anche il Cristo risorto è apparso con le ferite nelle mani. La nostra missione non è restare a piangere, ma uscire dalla paura per soccorrere i fratelli e sorelle feriti per strada o nei campi di sfollati.

La Caritas nazionale, chiamata Kmss, ha messo in atto un programma solido, supportato dai partner di Caritas Internationalis, focalizzato sull’alimentazione, sulla distribuzione di beni non alimentari e sull’assistenza medica. Migliaia di famiglie sono già state raggiunte.
Abbiamo anche attivato Merci (Myanmar Earthquake Response Church Initiative), di cui sono vescovo referente, per garantire protezione e collegamento ai volontari e al personale ecclesiale. È un’iniziativa collaborativa, che coinvolge tutti gli attori ecclesiali del Paese.

Il Myanmar era già duramente provato da una guerra civile sanguinosa e ora affronta questa nuova tribolazione. Anche la Chiesa continua a subire prove. Cosa può dirci a riguardo?
Sì, molti hanno osservato che il popolo del Myanmar sta vivendo un’inesauribile Via Crucis, fatta di crisi multilivello. E ora, purtroppo, anche la natura si è accanita. Spezzato, distrutto, ferito, insanguinato e in lacrime, il nostro popolo vive un cammino dolorosissimo. La Quaresima per noi non dura quaranta giorni: si prolunga indefinitamente. Milioni sono sfollati, milioni vivono nell’insicurezza alimentare. La guerra infuria. La pace sembra un sogno lontano.

Il Myanmar è diventato come il biblico Giobbe, con una domanda assillante: perché soffrono gli innocenti?

Il terremoto ha sepolto sotto le macerie migliaia di persone vive – scomparse in un istante, senza pianto, senza saluto, senza nome. Nessun abbraccio finale, nessun addio bagnato di lacrime. Solo silenzio. Un silenzio che grida.

Papa Francesco e Papa Leone XIV hanno più volte auspicato la pace. Quale messaggio vuole dare alla comunità internazionale?
Papa Francesco non ha mai distolto lo sguardo dall’agonia del Myanmar, ripetendo che la pace è possibile e che è l’unica via. Durante la sua storica visita, non ha solo pregato per la pace – ha affidato alla Chiesa in Myanmar una missione sacra: diventare punto di riferimento di riconciliazione. Gli saremo sempre grati.
Papa Leone XIV, fin dalle prime parole, ha auspicato una pace disarmata e disarmante. Il nostro nuovo Papa ha iniziato a costruire un pellegrinaggio per la pace globale. Non dobbiamo permettere che nel mondo vi sia un’altra guerra mondiale, sostenuta da tecnologie avanzate: sarebbe apocalittico.

Alla Chiesa e agli amici in Italia dico: il vostro amore ha attraversato gli oceani. La vostra solidarietà ha toccato le nostre ferite. I vostri aiuti raggiungono non solo le nostre mani, ma anche i nostri cuori.

È possibile, nonostante tutto, continuare a testimoniare dialogo, riconciliazione, cura delle ferite?
Il popolo del Myanmar ha sempre vissuto in pace. Non c’è conflitto tra la gente. La generosità dopo il terremoto è commovente. Siamo uniti nella sofferenza, nella preghiera e nella sete di pace. La compassione è la religione comune del Myanmar. I leader religiosi devono promuovere la pace e curare le ferite. Un esempio toccante è stato vedere le comunità unirsi quando moschee e monasteri sono stati danneggiati.

In questo Anno Giubilare, cosa significa la speranza per il Myanmar?
Come ho detto alla Veglia pasquale, Pasqua e il Capodanno birmano sono coincisi. Le acque del Thingyan purificano e rinnovano. Vediamole come simbolo di rinnovamento: non solo per lavare la polvere, ma anche paura e disperazione.
Auspico che la Pasqua sia per il Myanmar non solo un giorno, ma un nuovo inizio santo. Che si possa dire: si sono sostenuti quando tutto tremava, e sono risorti – più forti, più attenti, più uniti nella compassione.

La tomba è vuota. Anche le notti più lunghe finiranno in un’alba di speranza. La giustizia sorgerà. E la gioia tornerà in questa Terra d’Oro.

Ferruccio Ferrante (SIR)

Foto in evidenza ANSA/SIR

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