Non avremmo saputo dirlo meglio noi adulti. Non avremmo saputo dirlo meglio.
Ci sono mancate le parole per spiegare un dolore che non-si-può-spiegare, ma si può solo vivere; ci siamo sentiti impreparati a descrivere uno strappo che lacera il cuore, che toglie il fiato e che lascia spazio alla paura di doverlo guardare negli occhi. Ma quando noi adulti non sappiamo cosa fare o cosa dire, ci pensano bambine e bambini a dire l’essenziale. Senza fronzoli, né tentativi di indorare una pillola assai amara. Dicendo ciò che conta. Dicendo la verità. La loro verità.
È così che siamo rimasti ammutoliti (e con un groppo in gola) quando ieri mattina, nel Duomo di Muggia, la maestra del piccolo Giovanni ha riportato i pensieri dei suoi amici per lui:
“Tu mi vedi ogni giorno a scuola. Anch’io ti vedo. Ma in mezzo ci sono le nuvole”.
La descrizione perfetta, pulita e sincera di ciò che vuol dire, per una bambina o un bambino coetaneo di Giovanni, fare i conti con la sua improvvisa assenza. Che però è presenza. Non hanno usato un verbo coniugato al passato, ma hanno scelto un deciso e non casuale presente. Non hanno confezionato una parola ricercata tra mille ragionamenti, ma messo in evidenza il senso del “vedersi”: quello che permette di riconoscere l’altro ancora prima di ascoltarne la voce o di sentirne il profumo. E hanno interpellato un elemento naturale importante che richiama la concretezza del vivere quotidiano: le nuvole. Quelle che possono nascondere il sole, ma anche svelarne la luce più brillante dopo un temporale. Quelle che sembrano piangere le lacrime che noi a volte non sappiamo lasciar cadere. Le stesse che ci raccontano di venti ad alta quota che le fanno correre, mentre noi, con il naso all’insù, possiamo solo stare a guardare.
Non c’è nulla di astratto nel dolore di queste bambine e di questi bambini. C’è, invece, la vita che continua a scorrere, nonostante il dolore, al di là di esso. Ci sono le giornate che si infilano, sempre troppo piene, in mezzo alla consapevolezza che niente sarà più come prima. Ma c’è anche uno sguardo di speranza e di leggerezza, che i più piccoli conservano ancora intatto, che indica a tutti, soprattutto a noi adulti, un orizzonte nuovo. Quello che, proprio a partire da una perdita così grande come è quella di un amico, di un caro amico, ci fa scorgere la bellezza di una relazione che non muore. Perché l’amore incondizionato che queste giovani creature sanno vivere nelle relazioni di amicizia quotidiane – fatte anche di condivisioni di “caramelle con le femmine e di merende con i maschi”, come faceva Giovanni, lo ha ricordato il parroco don Andrea Destradi – è come un seme che si pianta nel cuore. E, silenziosamente, cresce, si rinforza. E rimane. Anche quando, apparentemente, tutto sembra perduto.
Nel tempo sospeso di questo martedì mattina, si è trovato spazio per una parola di compassione anche per Olena, la mamma di Giovanni: si è pregato perché possa prendere consapevolezza di ciò che ha commesso e possa fare un percorso di verità. Si è parlato di giustizia, quella umana, che avrà i suoi tempi e i suoi modi per fare il proprio corso. Si è detto grazie a Paolo, il papà di Giovanni, perché in queste settimane non ha mai pronunciato parole violente o di odio. E si è detto grazie a Giovanni per il bambino e l’amico che è stato. Per il suo essere “come un alveare” – come ha detto un altro dei suoi amici – pieno di idee, operoso, vivace e pronto a “condividere i suoi biscotti”. Una condivisione concreta di ciò che nutre con gusto. Perché l’amicizia sincera ha un sapore ben preciso. Fragrante e pieno di dolcezza.
Tra gli sguardi attoniti e qualche rosa bianca stretta tra le mani, ieri mattina c’erano anche i loro volti: quelli dei bambini e delle bambine presenti. Chi un po’ frastornato, chi apparentemente tranquillo, chi, con codine in testa e veste ben stirata, pronta per il servizio all’altare, chi con la divisa della squadra di calcio. Eppure lì, insieme, per celebrare la vita di Giovanni. Per dire che con lui si volevano bene, tanto bene, e per raccontare a noi grandi – che a stento reggiamo la vista di quella bara bianca – che l’unica strada da percorrere è quella di aggrapparsi alla vita e alle relazioni che abbiamo costruito. Per dirci che solo insieme possiamo proseguire il cammino che ciascuno di noi ha davanti. E che serve ripartire da loro, dai più piccoli. Dai loro sguardi, dai loro sorrisi, ma anche dalle loro paure. Ripartire da loro che sono, in sostanza, i custodi e le custodi della vita più autentica.
“Tu mi vedi ogni giorno a scuola. Anch’io ti vedo. Ma in mezzo ci sono le nuvole”.
Siamo usciti dalla chiesa con queste parole scolpite dentro, ieri mattina. Mentre una comunità intera accompagnava Giovanni, a piedi, verso il luogo del suo riposo terreno. Su quel piccolo monte verso il quale – come dice il Salmo 120, cantato all’inizio della celebrazione – anche noi alziamo gli occhi e chiediamo “da dove mi verrà l’aiuto?”. In quel luogo di silenzio e memoria dove chi gli ha voluto bene potrà portare un fiore e dove lui potrà vedere chi andrà a trovarlo. Con in mezzo le nuvole.
Non avremmo saputo dirlo meglio noi adulti. Non avremmo saputo dirlo meglio.
Luisa Pozzar
Foto di Luca Tedeschi
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