Con la guida della professoressa Elisabetta Cavicchi, il 3 dicembre scorso l’incontro “L’altro da sé: sguardi e prospettive tra Oriente e Occidente” si è aperto partendo da tre scrittrici anglofone, due inglesi e una statunitense. Tre scrittrici molto diverse, tre personaggi femminili accomunati da un elemento concordante: la limitazione della propria vita in uno spazio angusto, ora stanza, ora soffitta. Si tratta di Jane Eyre nell’omonimo romanzo di Charlotte Brontë, Antoinette ne “Il gran Mar dei Sargassi” di Jeane Rhys e la moglie depressa di un medico ne “La carta da parati gialla”.
Dei tre personaggi, Jane Eyre è l’unica che riesce a riscattarsi, grazie alle premure dello zio che le ha procurato un futuro e al matrimonio col sig. Rochester, padrone di casa. Ma dietro alla futura felicità di Jane c’è un segreto oscuro: Rochester era già sposato con Berthe, rinchiusa in soffitta a causa dei suoi attacchi di follia. Anche la scrittrice, Charlotte Brontë, è a modo suo prigioniera del codice vittoriano, infatti pubblica il suo romanzo con uno pseudonimo maschile, costretta quindi a nascondere pure il suo nome.
Pure ad Antoinette, donna creola, ne Il gran Mar dei Sargassi vengono negati nome e identità: il marito la chiama Berthe e la porta nell’Inghilterra vittoriana tentando di conformarla alle regole di quella società. Ma Antoinette è una donna diversa, libera, che in quel contesto impazzisce e viene rinchiusa in una stanza. Jean Rhys, anche lei creola, scrive un romanzo post-coloniale, dove la vittima è umiliata dall’Inghilterra vittoriana, con i suoi rigidi canoni conformisti, che non sa e non vuole accettare modelli femminili e comportamentali diversi.
La moglie del medico, ne La carta da parati gialla,invece, affetta da depressione nervosa, è costretta a seguire la terapia del riposo assoluto, per cui non le viene permesso di fare niente: anche questa è una sorta di prigione. La sua mente inizia a vacillare e vede dietro la carta da parati una donna che cerca di uscire dalle sbarre, specchio di se stessa e della sua condizione. La protagonista strappa la carta per liberarla, e liberare se stessa da quella prigione dorata. La scrittrice, Charlotte Perkins Gilman, aveva sofferto lei stessa di depressione post-parto e si era ripresa soltanto grazie al lavoro; propone infatti con questo romanzo una narrativa di denuncia contro l’oppressione a cui andavano soggette le donne.
Scrittrici e personaggi si intersecano e si specchiano le une negli altri, la follia sembra un tentativo di liberare, se non il corpo, almeno l’anima e la mente: ci deve essere un posto dove poter gridare la verità e il proprio dolore. Antoinette non può accettare quel “mondo di cartone” che era l’Inghilterra vittoriana; quando il medico guarda scandalizzato la carta da parati strappata, lei lo apostrofa “non riuscirai a ficcarmici dentro di nuovo”. Fuori e dentro, apparenza e realtà: mondi in aperta collisione, il cui scontro fa scattare la follia come grido liberatorio.
Nell’intervento della professoressa Suana Jimeno Dominguez – “Voci femminili che riscrivono la storia” – ecco due donne lontane nel tempo: Maria Pita, vissuta tra il XVI e il XVII secolo, e Clara Campoamor, promotrice del voto alle donne nella Costituzione Spagnola del 1931. Di entrambe non c’è traccia nei manuali scolastici. Eppure… la storia è spesso da riscrivere, perché è stata tramandata soltanto una versione dei fatti.
Nel 1589, un anno dopo la sconfitta dell’Invincibile Armada, gli Inglesi tentano di distruggere quello che resta della flotta spagnola. Francis Drake decide di puntare all’assalto di La Coruňa, la città natale di Maria Pita in Galizia. 27mila inglesi contro 15mila spagnoli: un massacro. Lei vede cadere il marito, colpito da una freccia da parte del fratello di Francis Drake: quando tutti sono pronti alla resa, decide di reagire, afferra una lancia, grida “chi ha onore mi segua” e si getta contro il nemico. Il suo gesto riaccende le speranze e l’annunciata sconfitta si tramuta in vittoria. Chissà perché i libri di storia parlano solo della vittoria inglese sull’Invincibile Armada e non citano questo episodio, che vede invece gli Inglesi sconfitti… Maria non viene riconosciuta subito come eroina, ma lei non cede: va più volte dal re, finché ottiene il titolo di alfiere. La corbetta che portò il vaccino antivaiolo dalla Galizia alle Americhe portava il nome di Maria Pita, in segno di riconoscimento. Non così fortunata fu Ines del Ben, che combattè accanto a Maria, ma non ottenne mai alcun premio e morì povera. La battaglia di La Coruňa e il nome di Maria Pita, invece, sono ancora oggi protagonisti di rievocazioni storiche e legati a un ordine cavalleresco.
Clara Campoamor, invece, per combattere ha usato la parola, lottando contro le opposizioni al voto alle donne: tra le oppositrici c’era anche una donna, Victoria Kent, la quale non era antifemminista, ma riteneva che le donne non fossero ancora sufficientemente preparate per votare e sarebbero quindi state facile preda di propagande conservatrici, portando alla vittoria i partiti di destra. La cosa accadde comunque, ma non per colpa delle donne che hanno votato. Insieme con il diritto di voto, le donne ottennero anche il divorzio, l’uguaglianza marito-moglie nel matrimonio e la parità di tutti i figli, legittimi, naturali o adottivi che fossero. Dopo l’ascesa al potere di Francisco Franco, Clara lascia la politica sia in seguito alle minacce ricevute sia perché ne critica gli estremismi e si rifugia in Svizzera, dove esercita come avvocato a Losanna. Ogni tanto, però, con un passaporto falso, torna in Spagna al suo paese e dalla sua famiglia. Le sue ultime volontà sono di essere sepolta a Sao Sebastiao, cosa che avverrà.
Alla professoressa Valentina Dordolo è spettato, quindi, offrire il suo intervento su “La donna nel mondo biblico”. La lettura e, soprattutto, l’interpretazione della Bibbia richiedono alcune cautele: la Bibbia non è “un” libro, ma un insieme di libri composti in epoche, lingue e contesti diversi, dove il messaggio è nascosto da un substrato culturale che è necessario conoscere, per non fraintenderne contenuti e simboli.
Un altro problema è rappresentato dalle traduzioni, che non sempre rendono giustizia al testo originale. Qualche esempio? Donna si dice “ishah” e uomo “ish”, per cui anche linguisticamente tra i due non c’è estraneità, ma comunanza. La famosa “costola” – “tsela” – indicava la parte sinistra dell’intera cassa toracica: la donna, quindi, è nata per stare a fianco dell’uomo e non sotto di lui. Nell’ebraismo, inoltre, la trasmissione della fede spetta alla donna: si è ebrei per parte di madre e non di padre. Gli Ebrei furono i primi a sostenere l’importanza dello studio e della cultura personale nelle donne, con particolare predilezione per gli studi scientifici, come dimostra il caso di Rita Levi Montalcini. La conoscenza “hokmah” è una parola femminile. Il termine stesso di “parola-dabar” significa parola efficace, da cui l’importanza della parola data.
L’intelligenza “binah” non coincide con la razionalizzazione, bensì con il saper entrare dentro le cose per capirle. La “kabalah” si fonda sulla conoscenza-hokmah, sull’intelligenza-binah e sulla corona-keter, a indicare che il potere si basa sulla conoscenza e non sulla forza. Lo spirito, “ruah”, in ebraico è una parola femminile.
Non mancano, però, gli aspetti più critici, come quello dell’impurità della donna durante il ciclo mestruale: il sangue è simbolo di vita, ma anche di malattia. Nei matrimoni, infatti, la sposa il giorno delle nozze non deve avere il ciclo.
E nel cristianesimo? Criticità ed errori di interpretazione non mancano. San Paolo vedeva il matrimonio solo come un male minore (“meglio sposarsi che ardere”): il famoso passo della lettera agli Efesini 5,22, che raccomanda alle mogli la sottomissione ai mariti, viene spesso letto in modo parziale, in quanto ne viene ignorata la seconda parte (“e voi mariti, amate le vostre mogli come Cristo ha amato la Chiesa”); è più facile scegliere le vie più sbrigative e ignorare ciò che invece inviterebbe a riflettere.
Nel Nuovo Testamento e, soprattutto, nelle sue interpretazioni, la figura di Maria è sempre stata tramandata come modello di calma, pazienza, docilità, silenzio, obbedienza. In realtà Maria è stata forte e coraggiosa: dire di sì all’angelo ha significato per lei ritrovarsi incinta senza essere sposata, e quindi esposta al rischio di lapidazione; quando Gesù è in croce, tutti gli apostoli tranne Giovanni fuggono, mentre lei è lì; nel Cenacolo è parte attiva della comunità. Dalle testimonianze archeologiche sappiamo anche che Maria sapeva leggere e scrivere ed era consacrata al Tempio in quanto discendente di Aronne: era quindi provvista di una sapienza pratica.
L’altro modello biblico, Eva, viene sempre vista come simbolo di tentazione e caduta, come se Adamo non fosse corresponsabile, visto che ha acconsentito e non è stato costretto.
La mela non è una mela, ma un dattero, simbolo di fecondità (per l’Islam, infatti, Maria partorisce sotto una palma da dattero).
Nel mondo islamico, a proposito, Maria, simbolo di accoglienza ed educazione, trova nel Corano una sura tutta per sé, dove vengono messi in evidenza la sua istruzione, la sua saggezza e il fatto che ha saputo educare un figlio profeta.
L’altro modello nell’Islam è Fatima, la donna forte e combattiva.
E il velo? Il Corano prescrive alle donne solo di coprirsi il capo per rispetto al marito e a Dio, non di sparire; d’altro canto, anche Maria è sempre presentata con una sorta di velo in testa, perché anche l’ebraismo raccomandava il pudore (ma non altro)… Nelle regioni più povere, però, il Corano viene letto e interpretato superficialmente e imposto come forma di dominio: il burqa era preislamico e viene ripescato proprio dagli estremisti.
I pensatori cristiani – apologisti e Padri della Chiesa – non sono da meno: Tertulliano, nel suo trattato “Ad uxorem” scrive che la donna cristiana, per distinguersi dalla pagana, non deve avere né trucco né gioielli e deve tenere lo sguardo basso, parlare a bassa voce ed evitare la compagnia di altri maschi per non farli cadere in tentazione. Sant’Agostino, pure noto per le sue splendide “Confessioni”, è allievo del misogino Ambrogio e definisce la donna come peccato, corruzione, colpa, fiamma, fuoco.
Tornando all’Antico Testamento, la figura più forte è Myriam, la sorella di Mosè: è lei a guidare il popolo oltre il Mar Rosso e a cantare l’inno di vittoria quando gli Egiziani vengono sommersi (“Mia forza e mio canto è il Signore”). Già, il canto: nel Tempio di Salomone c’era un coro di professionisti sia uomini che donne. Ma nel cristianesimo la voce femminile era ritenuta suadente: ancora oggi in molte chiese ortodosse non vengono accettate voci femminili (Trieste in questo, con il suo coro misto e la sua direttrice, è un’eccezione). Nel mondo cattolico il vero rivoluzionario in questo senso è stato San Francesco, il quale nel mese di maggio fa cantare le donne in onore a Maria.
Non si poteva non concludere in modo poetico: nella letteratura di matrice islamica ci sono molte poesie sulla donna e su amori infelici e non mancano esempi di donne intraprendenti come Sherazade, che si salvò la vita raccontando storie al principe; da qui i racconti delle “Mille e una notte”.
Un’ultima chicca: nel mondo mediorientale la notte, in arabo “layla” (anche nome di donna), non fa paura, ma è il momento in cui l’aria fresca dà sollievo dopo una giornata di sole cocente; è anche il tempo della riflessione, perché un corpo più ristorato pensa meglio. E si spera, a questo punto, che più di qualche notte porti consiglio per uno sguardo nuovo verso il mondo femminile in generale e da tutti i punti di vista.
Iris Zocchelli
Grazie per aver letto questo articolo. Se vuoi restare aggiornato ti invitiamo a iscriverti al nostro canale Whatsapp cliccando qui



