Myanmar: “Il sisma è stato come un ‘cuore-moto’”, Mons. Tin Win.

Negli ultimi 35 anni sono stati 244 i progetti finanziati in Myanmar dalla Cei attraverso il Servizio per gli interventi caritativi per lo sviluppo dei popoli. Grazie a oltre 20 milioni di euro dei fondi 8xmille che i cittadini destinano alla Chiesa cattolica, si è potuto intervenire in diversi settori, anche per aiuti d’urgenza.

Dopo il recente terremoto che ha colpito una vasta area, toccando l’arcidiocesi di Mandalay, Taungngu, Taunggyi e Loikaw, la Presidenza Cei ha messo a disposizione un milione di euro dai fondi 8xmille.

Caritas Italiana ha coordinato i primi soccorsi, in contatto con la Caritas locale e la rete internazionale. Immediata è stata anche l’attivazione di diocesi, parrocchie, missionari, volontari.
Abbiamo raccolto alcune voci a partire dall’arcivescovo mons. Marco Tin Win, arcivescovo di Mandalay.

“Quando la terra ha tremato e gli edifici sono crollati – dice l’arcivescovo – è stata la Chiesa a restare in silenzio con le braccia aperte. La gente ha cercato pace, rifugio e un segno di speranza presso le strutture ecclesiastiche. Tra le mura spezzate le chiese sono diventate un luogo di riparo per chi era spaventato. Ogni sera, ancora centinaia di persone, giovani e anziani, dormono negli spazi aperti accanto alle parrocchie. A Mandalay tutti abbiamo dormito all’aperto condividendo lo stesso spazio”.

La Chiesa ha risposto con forza creando il Mandalay Emergency Response Team (Mert) e Caritas Myanmar (Kmss-Karuna Mission Social Solidarity) sta operando in tutte le aree colpite. Migliaia di famiglie hanno ricevuto aiuti, ma anche sostegno e supporto psicologico. Particolare attenzione viene data alle fasce più fragili della popolazione: bambini, anziani, persone con disabilità. Le religiose in particolare, pur avendo anch’esse subito danni ai loro conventi, sono intervenute subito. Ogni giorno offrono cura con pasti semplici, bende pulite e parole gentili. Visitano luoghi dimenticati da tutti, prendendosi cura in silenzio dei feriti e degli abbandonati.

Un popolo che continua a percorrere il proprio Calvario. “A Mandalay – aggiunge mons. Tin Win – il terremoto non ha solo distrutto edifici, ha inghiottito vite. Alcuni sono scomparsi in pochi secondi. Nessun addio. Nessuna parola di commiato. Nessun ultimo abbraccio. Solo silenzio. Eppure, quel silenzio parla. Parla di perdita. Di nomi non scritti, di volti mai più visti. La morte aveva un appuntamento con il nostro popolo.

Il terremoto è stato come un ‘cuore-moto’ per noi.

In mezzo a tutto questo, la Chiesa non si è tirata indietro. Ferita anch’essa — chiese danneggiate, preti scossi, religiosi e fedeli sfollati — ha scelto di rimanere vicina al popolo. Come una candela con una fiammella che tremola, ma resta accesa, vacilla nella tempesta, ma continua a fare luce. Come guaritore ferito, cammina tra le tende, le macerie, la folla. Ascolta. Nutre. Abbraccia. È vero, ci siamo sentiti impauriti e smarriti. Come i discepoli nel Vangelo, siamo stati sorpresi da una tempesta improvvisa. Eppure, proprio in quella tempesta, Gesù viene. Non con clamore, non all’improvviso — ma camminando sulla tempesta, calmo e fermo. E dice, come allora: ‘Coraggio, sono io. Non abbiate paura’. Queste parole sono diventate realtà per noi, non solo nelle Scritture, ma in ogni mano che aiuta, ogni pasto condiviso, ogni atto silenzioso di solidarietà. Nelle suore che dormono sotto i teli con il popolo. Nei volontari che trasportano i feriti. Nel vostro amore, che da lontano ci raggiunge come luce delicata.

Gesù è salito sulla nostra barca. Il vento non è cessato all’istante, ma qualcosa è cambiato: non eravamo più soli. Siamo ancora nella barca, ma insieme — con il nostro popolo, con Lui, e con voi, continuiamo a remare”.

“Papa Francesco – prosegue l’arcivescovo – fino all’ultimo ha ribadito che la pace è il nostro unico futuro. Il messaggio che ha lasciato al mondo – e che Papa Leone XIV ha rilanciato dall’inizio del Pontificato – è che le armi non hanno mai risolto i problemi; solo l’unione dei cuori e il perdono possono farlo. Dobbiamo essere ponti dove ci sono muri, ascolto dove c’è grido, luce dove c’è buio. Anche in questa emergenza sperimentiamo come essere cattolici significhi appartenere a una famiglia senza confini, dove si condivide la sofferenza, ma anche la speranza e nessuno è mai solo”.

Ferruccio Ferrante (SIR)

Foto: SIR

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