“Esprimo il mio profondo dolore per l’attacco dell’esercito israeliano contro la Parrocchia cattolica della Sacra Famiglia in Gaza City… Tale atto, purtroppo, si aggiunge ai continui attacchi militari contro la popolazione civile e i luoghi di culto a Gaza. Chiedo nuovamente che si fermi subito la barbarie della guerra e che si raggiunga una risoluzione pacifica del conflitto… Ai nostri amati cristiani mediorientali dico: sono vicino alla vostra sensazione di poter fare poco davanti a questa situazione così drammatica. Siete nel cuore del Papa e di tutta la Chiesa. Grazie per la vostra testimonianza di fede”. Le parole di Papa Leone XIV, ieri, all’Angelus da Castel Gandolfo, sono arrivate dritte al cuore della parrocchia della Sacra Famiglia di Gaza, che ha ricevuto venerdì la visita di solidarietà del patriarca latino di Gerusalemme, card. Pierbattista Pizzaballa, e del patriarca greco-ortodosso, Teofilo III. A colpire, in particolare, “il ricordo dei nomi delle tre vittime, Saad Issa Kostandi Salameh, Foumia Issa Latif Ayyad, Najwa Ibrahim Latif Abu Daoud”, fatto dal Pontefice, racconta al Sir il parroco, padre Gabriel Romanelli, egli stesso tra i feriti nell’attacco israeliano. La presenza del card. Pizzaballa si è protratta fino a ieri, quando ha fatto ritorno a Gerusalemme, lasciandosi dietro numerosi incontri, visite e preghiere con la comunità cristiana locale. “Un balsamo per la nostra parrocchia ferita”, aggiunge padre Romanelli. Celebrando la messa ieri mattina nella chiesa parrocchiale, ancora agibile nonostante i danni al frontone vicino la croce e alle vetrate infrante, il patriarca ha voluto esprimere il suo incoraggiamento ai fedeli: “Ho visto la vita nei vostri volti, nonostante la distruzione che vi circonda”. Un’omelia intensa, culminata nelle parole: “La nostra visita esprime l’amore di tutta la Chiesa per voi. Ogni volta che vengo qui a trovarvi, ricevo da voi molto di più di quanto io possa darvi e torno a casa arricchito. Rimanete saldi in Gesù. Tutto il mondo vi guarda. Siate luce non solo per Gaza ma per il mondo intero”. Al termine della visita del card. Pizzaballa, a tre giorni dall’attacco militare israeliano, il Sir ha raccolto la testimonianza del parroco, padre Gabriel Romanelli.
Padre Gabriel, qual è la situazione oggi nella vostra parrocchia, dopo l’attacco?
La vita è spezzata, la situazione è davvero grave.

Eppure, in questo buio, brilla ancora una luce: la fede della nostra gente.

Accanto alla realtà tragica della morte di tanti – soprattutto bambini – fin dall’inizio di questa guerra, c’è la straordinaria pazienza di chi vive qui. Anche tra tanto dolore, tanti si mettono a servizio degli altri. È qualcosa che commuove. E poi c’è stato il conforto portato dalla visita dei patriarchi. Hanno rappresentato tutte le Chiese del mondo, come ha detto il patriarca durante la messa di ieri. È stato davvero un segno di vicinanza concreta.
Papa Leone XIV vi ha chiamato?
Sì, ci ha chiamati. Ha chiamato il patriarca e ha cercato di contattare anche noi. Io, in quel momento, non avevo linea e non ho potuto rispondere, ma ha parlato poi con padre Carlos e padre Youssef. Il Papa ci ha espresso la sua vicinanza, la sua preoccupazione e la sua preghiera per noi. È successo venerdì mattina e ci ha dato grande conforto.
In che modo la Chiesa si sta muovendo per aiutare la popolazione?
Sta cercando in tutti i modi di far arrivare aiuti. Ma la stragrande maggioranza della popolazione non ha nulla: né cibo, né acqua. In questi giorni, ad esempio, la temperatura percepita è di 42 gradi. La gente è stremata, disperata, e i bombardamenti continuano. In tutto questo buio, la Chiesa si adopera affinché qualcosa possa arrivare. Ma finora, purtroppo, non ci siamo riusciti. Speriamo nei prossimi giorni, ma la situazione è molto grave.
Come state vivendo questo tempo così duro come comunità cristiana?
Continuiamo a testimoniare Cristo con la nostra presenza, con la preghiera, aiutandoci a vicenda, aiutando i vicini.
Il mondo intero deve capire che la guerra non può avere l’ultima parola.
Ieri abbiamo pregato per tutte le vittime della guerra, senza distinzioni. Abbiamo pregato per la libertà dei prigionieri, per la liberazione degli ostaggi. Noi vogliamo la pace. Ma la prima cosa da fare subito è fermare questa guerra.
Foto AFP/SIR

Il card. Pizzaballa è stato insieme a voi. Cosa può dire di questa visita?

Ha fatto tanto. Insieme al patriarca greco-ortodosso ha visitato la nostra chiesa, quella ortodossa e l’ospedale. Uno dei momenti più intensi è stato quando uno dei feriti, ancora ricoverato, ha baciato la croce pettorale del patriarca. È uno dei due casi più gravi: ha riportato una perforazione polmonare. È stato ferito nel bombardamento. C’è stato il sopralluogo all’ambulatorio sanitario della Caritas, rinnovato da poco, al centro San Tommaso d’Aquino, dove hanno constatato i danni, alla scuola delle Suore del Rosario a Tal Al Hawa, nella zona sud di Gaza city. Il patriarca ha potuto vedere la distruzione generale. Domenica ha pregato tutto il tempo con noi: adorazione, Rosario, messa.
Il patriarca, è stato riportato, avrebbe portato in dono tonnellate di aiuti…
No. Questa è una notizia che va precisata. Non ha portato aiuti materiali. È entrato con i suoi effetti personali. Ha portato la benedizione, la consolazione della Chiesa.
I media hanno parlato di tonnellate di aiuti ma non è così. Vero, invece, che la Chiesa sta lavorando senza sosta affinché possano entrare gli aiuti, il prima possibile, da destinare alla popolazione, a tutti. Ma ancora nulla di concreto.
Vi aspettavate un attacco così diretto?
No. È stata una totale sorpresa. Non ce lo aspettavamo. Da 17 giorni c’erano operazioni militari nel nostro quartiere. Cercavamo di fare in modo che tutti restassero dentro, ma non si può rimanere chiusi per 17 giorni in un posto senza nemmeno un bagno. Per forza si doveva uscire ogni tanto, ma lo si faceva in fretta. Nonostante ciò, anche chi era al riparo sotto un tetto è stato ferito: io stesso, padre Youssef, il mio vicario parrocchiale e il nostro giovane postulante Suhail Abo Dawood. L’attacco ha colpito la parte del frontone della chiesa dove si erge la croce alta circa due metri. Le schegge metalliche e i detriti caduti dall’alto hanno provocato feriti e morti. L’interno della chiesa, fortunatamente, è rimasto integro. Solo le vetrate sono andate distrutte.
Cosa farete, adesso, come parrocchia?
Continueremo a pregare, ad aiutare i più vulnerabili, a lavorare per la pace e a chiedere al Signore che perdoni tutti i responsabili di questa guerra.