Quel sano bisogno di sdegnarsi. E “rompere le scatole”

A 32 anni dall'omicidio, avvenuto per mano mafiosa, di padre Pino Puglisi, un ricordo che è memoria viva per il presente e seme di vita per il futuro

Il 15 settembre 1993, giorno del suo cinquantaseiesimo compleanno, padre Pino Puglisi fu ucciso da Cosa Nostra sul piazzale davanti al portone di casa. In questi anni più volte ho sostato su quel piazzale. Più che la casa divenuta museo e che, a essere onesti, mi lascia alquanto indifferente, mi ha sempre attratto quello spiazzo aperto al passaggio di una variegata umanità, che dà la possibilità di sentire ancora le voci di chi lo ricorda; ancor più mi attraggono e mi commuovono fino alle lacrime le opere che ha lasciato in eredità nel quartiere del Brancaccio e che continuano a essere portate avanti a favore dei ragazzi e delle persone vittime della cultura imperante dello scarto, come direbbe papa Francesco.

Ma oggi ha ancora senso ricordarlo? Non è stato detto già a sufficienza su di lui, e anche da testimoni “di prima mano”? E poi, con la beatificazione del 2013, non c’è il rischio di farne un “santino”, imbalsamando e rendendo sterile la sua figura, relegandola ad aspetti cultuali, senza legami con la vita e la storia?

Sono domande retoriche, che trovano risposta in ciò che “3P” (così veniva soprannominato) operava, tra gli anni ’80 e ’90, come parroco di uno dei quartieri popolari più difficili e compromessi di Palermo. Un’opera che è ben delineata da Giovanni Drago, il killer che conosceva, e al quale, prima di essere freddato, è riuscito a dire con un sorriso disarmante: «Me l’aspettavo». Ecco le sue parole:  «Predicava, predicava, prendeva ragazzini e li toglieva di strada. Faceva processioni, gridava a destra e sinistra che si doveva distruggere la mafia, che bisognava lottare. Insomma ogni giorno martellava, martellava e rompeva le scatole. Questo era sufficiente, anzi sufficientissimo per farne un obiettivo da togliere di mezzo».

Puglisi è stato “tolto di mezzo” perché aveva a cuore la vita del popolo palermitano, che in quegli anni stava vivendo la drammatica violenza delle stragi di una mafia che, per difendersi da chi ne ostacolava in qualche modo i piani, commissionava l’uccisione di uomini e donne, anche rappresentanti dello Stato, come fu per Carlo Alberto Dalla Chiesa (1982), per il giudice “ragazzino”, il beato Rosario Livatino (1990), e per Giovanni Falcone e Paolo Borsellino (1992).

Non è un caso che sia stato riconosciuto come martire “in odium fidei”, perché nella prassi pastorale quotidiana viveva e trasmetteva un Vangelo di liberazione che contrastava ogni forma di oppressione dell’uomo sugli altri esseri umani, costruendo un’alternativa concreta al sistema mafioso, sconfessando la parola “padrino” e rimettendo a fuoco la parola Padre, che si prende cura di tutti i suoi figli, senza servirsene e rendendoli schiavi di un sistema, ma facendo sperimentare loro la libertà.

Si era certi di non trovarlo rinchiuso in sacrestia, ma lo si trovava in strada vivendo fino in fondo i problemi, i rischi, le speranze della sua gente; lo si trovava nei vicoli del Brancaccio per dare ai ragazzi un’alternativa, liberandoli dall’ideologia che la mafia imponeva, restituendo loro la dignità e un futuro. Con la ferma convinzione che occorreva creare una nuova cultura della legalità capace di portare alla rinascita del quartiere e al ripristino di condizioni di vita più dignitose per tutti.

Papa Leone, da buon agostiniano, probabilmente non avrebbe difficoltà a citare il fondatore del suo Ordine, con una frase che ben si addice alla vita di “3P”: «La Speranza ha due bellissimi figli: lo sdegno e il coraggio. Lo sdegno per le cose che ci sono, il coraggio per cambiarle». Padre Pino Puglisi si è lasciato smuovere dallo sdegno di vite schiave di poteri mafiosi e ha avuto il coraggio di mettersi in gioco perché sia restituita all’uomo la sua dignità. Lo ha fatto senza cadere in deliri di onnipotenza, ma con piccoli gesti quotidiani:

«Se ognuno fa qualcosa, si può fare molto».

Mettendoci la faccia, il corpo, la vita.

Nel frattempo le mafie sono passate dal ricorso a strategie stragiste, che metteva a ferro e fuoco i territori, a un modus operandi più subdolo e silenzioso, con il coinvolgimento diretto dei colletti bianchi del potere, dal mondo della finanza a quello dell’economia e della politica, di fatto ramificandosi in tutto il territorio nazionale, anche in quel Centro-Nord, fino a pochi anni fa ritenuto scevro da organizzazioni criminali.

Cambiano le strategie, ma non l’oppressione dell’uomo sull’uomo. Ecco perché è importante ricordare ancora Puglisi: egli parla alla coscienza del nostro tempo, comunicandoci il bisogno di sdegnarci ancora per tutto ciò che è oppressione e trovando in quel “noi”, che si fa popolo, il coraggio per uscire dai nostri silenzi e dalla nostra indifferenza, per “rompere le scatole” con scelte di campo foriere di un cristianesimo caratterizzato da una attraente, disarmante umanità.

don Paolo Iannaccone

presidente del Centro “Ernesto Balducci” di Zugliano (UD)

Foto in evidenza: Gennari-Siciliani/SIR

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