“Accogliamo con gioia ed emozione il Santo Padre”

La visita di Papa Leone porta speranza al Libano segnato da crisi e conflitti. La voce di padre Marwan Akoury, sacerdote dell’arcidiocesi maronita di Beirut

“Accogliamo con immensa gioia e profonda emozione la venuta del Santo Padre al Libano, la Terra dei Cedri, patria della santità, del martirio e della resistenza: è un segno che la Chiesa non abbandona mai i suoi figli. Vivere da cristiani oggi in Libano significa testimoniare speranza in mezzo alle prove”. A raccontare l’attesa per la visita di papa Leone, che arriverà in Libano domenica 30 novembre, dopo la tappa in Turchia, è padre Marwan Akoury, sacerdote dell’arcidiocesi maronita di Beirut, parroco della parrocchia “La Madonna e Santa Rita” a Sin El Fil, e responsabile della comunicazione per l’arcidiocesi. Fin dall’annuncio della visita è impegnato nel comitato organizzativo, e coordina un gruppo di 3.200 giovani provenienti da tutte le organizzazioni e associazioni cattoliche del Libano, al lavoro per la Messa che il Papa presiederà martedì 2 dicembre al Beirut Waterfront.

Il Libano, e Beirut in particolare, vivono in stato di guerra da 50 anni, per motivi diversi e conflitti diversi. Con quali attese vi state preparando ad accoglierlo?

In un Paese segnato da cinquant’anni di crisi e conflitti, la visita apostolica del Papa è un raggio di luce, un soffio di speranza e un segno tangibile che la Chiesa non abbandona mai i suoi figli, anche nei momenti più oscuri. Ci prepariamo con il cuore aperto, desiderosi di ascoltare la sua parola profetica di pace, unità e riconciliazione. Il Libano ha sete di una presenza paterna che lo incoraggi a risollevarsi e a credere nel suo ruolo unico nel dialogo tra le religioni e le culture. L’arrivo del Papa è per noi un segno d’amore e una chiamata a rinnovare la nostra fede e il nostro impegno per costruire, nonostante tutto, un futuro di speranza.

In questi anni il Libano è diventato anche riparo per milioni di profughi. Come avete vissuto questa accoglienza?

È vero che il Libano ha accolto nei decenni milioni di profughi: palestinesi dal 1948, siriani dal 2011 e anche iracheni in fuga dalla guerra. Ma va detto con sincerità che questa accoglienza, più che una libera scelta, è stata sempre imposta al Paese da circostanze geopolitiche e decisioni internazionali, senza alcuna reale possibilità di rifiuto. Le conseguenze sono state pesanti: un profondo squilibrio demografico, un’enorme pressione sui servizi pubblici, crisi economiche aggravate, e soprattutto un impatto serio sull’identità culturale e religiosa del Paese. Oggi, un terzo della popolazione residente non è libanese. La convivenza è diventata sempre più complessa, e l’identità stessa del Libano rischia di essere alterata. Nonostante ciò, continuiamo a testimoniare i valori del Vangelo e della dignità umana, ma è fondamentale che la comunità internazionale riconosca i limiti di questa accoglienza forzata e lavori per soluzioni giuste e sostenibili. Il Libano non può più portare da solo questo peso che minaccia la nostra stessa esistenza come nazione.

Il Libano è visto anche come un laboratorio di dialogo, dove convivono molte comunità religiose. Qual è la testimonianza che date al mondo? 

Il nostro Paese è spesso presentato come un laboratorio di dialogo interreligioso, con le sue 18 comunità religiose ufficialmente riconosciute. È una realtà che ci ha resi unici nel mondo e che ha dato, nel tempo, testimonianze importanti di convivenza e rispetto reciproco. Tuttavia, oggi questa convivenza è messa alla prova: le crisi politiche, economiche e sociali che attraversiamo da anni hanno indebolito i legami tra le comunità, e il sistema confessionale, che un tempo garantiva rappresentanza, rischia ora di diventare motivo di divisione. Le tensioni regionali si riflettono anche nel nostro tessuto interno. Nonostante tutto, esiste ancora una volontà diffusa tra molti libanesi di vivere insieme, nel rispetto della diversità. È una sfida quotidiana, più che una realtà compiuta, ma resta una speranza: che il dialogo non sia solo slogan, ma diventi cultura e scelta concreta per il futuro del Paese.

Com’è la vita quotidiana dei libanesi e dei cristiani in particolare?

È segnata da grandi difficoltà. Dopo anni di crisi economica, inflazione, instabilità politica e mancanza di servizi essenziali come elettricità, acqua potabile e sanità, molte famiglie fanno fatica a vivere con dignità. Per i cristiani, queste sfide sono le stesse vissute da tutti i cittadini, ma si aggiunge anche la preoccupazione per la salvaguardia della presenza cristiana nel Paese. Molti giovani scelgono di emigrare in cerca di un futuro migliore, e questo impoverisce il tessuto delle nostre comunità. Nonostante tutto, la fede resta un punto fermo: le chiese sono vive, le parrocchie attive, e c’è un forte senso di solidarietà. Vivere da cristiani oggi in Libano significa testimoniare speranza in mezzo alle prove, restare radicati nella terra dei padri, e contribuire al bene comune con coraggio e perseveranza. Siamo, infatti, nella terra di san Charbel, santa Rafqa, san Nimatullah, e tanti altri santi e beati che, con la loro vita di preghiera, sacrificio e servizio, continuano a ispirarci a vivere la fede con autenticità. La loro presenza spirituale è per noi una forza e una luce nel cammino quotidiano.

Una vita che sarà diventata più difficile in seguito al conflitto Israele – Palestina…

Sì, la situazione è diventata più complessa. Il Libano, già segnato da una profonda crisi economica, politica e sociale, vive oggi sotto una crescente pressione a causa di un costante aumento delle tensioni con Israele. Il Sud del Paese e alcune zone di Beirut sono quotidianamente esposti a bombardamenti, minacce e instabilità militare, che mettono a rischio la vita della popolazione e alimentano un clima generale di paura e incertezza. Questa situazione si ripercuote su tutto il territorio nazionale, rendendo ancora più difficile la vita quotidiana dei libanesi e ostacolando ogni tentativo di ripresa o di stabilità duratura. Nonostante tutto, il popolo libanese resta profondamente legato alla sua terra e continua a testimoniare una fede viva e resistente, affidandosi alla speranza e pregando per la pace.

Quale messaggio donerete al Papa e al mondo intero?

Il messaggio che vogliamo offrire al Papa e al mondo intero è un grido di pace e giustizia: che il Libano non sia più usato come campo di conflitto. La crisi che viviamo oggi non è solo frutto delle mani dei libanesi, ma è il risultato di decenni di interessi esterni, guerre imposte e pressioni che superano la capacità di questo piccolo Paese. Chiediamo che il Libano sia rispettato nella sua sovranità, nella sua vocazione al dialogo e nella sua ricchezza culturale e spirituale. Questo Paese ha dato tanto alla Chiesa e al mondo, terra di santi, di accoglienza, di resistenza pacifica, merita ora un sostegno concreto e non solo parole. Alla luce della visita del Santo Padre, chiediamo che la comunità internazionale non ci dimentichi e che le potenze cessino di usare la nostra terra per regolare i propri conti. Il Libano vuole vivere, non solo sopravvivere. Vuole costruire, non restare prigioniero della paura. E con la benedizione del Papa, speriamo che questo messaggio arrivi chiaro e forte.

Alessandra Cecchin

 

Padre Marwan Akoury
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