«Non temo lo scoppio di una guerra totale in Europa ma non escludo il moltiplicarsi, anche nella stessa Europa, di conflitti locali. E i tempi che stiamo vivendo non hanno un paragone storico a cui rifarsi». Lo dice Vera Negri Zamagni, storica dell’economia dell’Università di Bologna e della John Hopkins University.
«Ci sono – aggiunge – due differenze fondamentali rispetto a qualunque cosa sia già successa nella storia. La prima differenza riguarda la bomba atomica. Non c’è mai stato un periodo storico in cui una guerra potesse dare adito all’uso di un’arma così distruttiva. Non abbiamo mai realmente sperimentato un conflitto tra potenze nucleari, possiamo solo immaginarne le conseguenze. In passato gli strumenti di guerra erano molto più limitati. Non c’era quella preoccupazione di fondo che rende oggi una guerra mondiale non solo molto più pericolosa, ma anche molto meno probabile, perché la gente è molto più prudente. Un tempo si andava in guerra pensando che i danni, per quanto gravi, sarebbero stati comunque limitati. Oggi, se si sganciano bombe atomiche, finisce la vita stessa. La seconda differenza è l’esistenza della Nato. Le alleanze del passato, in Europa, erano sempre bilaterali, al massimo si allargavano un po’ grazie a clausole tipo quella della “nazione più favorita” ma restavano comunque fragili. Pensiamo all’Italia: prima alleata con Germania e Austria, e poi all’ultimo momento passata con Francia e Regno Unito. Non esistevano alleanze forti, capaci di produrre un vero disincentivo all’entrata in una guerra totale. Oggi, invece, la Nato è un’alleanza solida, capace di fronteggiare un conflitto su vasta scala. E questo, insieme alla minaccia nucleare, rende molto improbabile una guerra mondiale. Dobbiamo piuttosto ragionare su guerre regionali, conflitti limitati, che sono esattamente quelli che stiamo vivendo».
Quali sono, secondo la sua sensibilità di storica e studiosa, i fattori di instabilità più marcati in questo momento?
Il fattore di instabilità più marcato, oggi, sono gli Stati Uniti. La Russia è sempre stata un fattore di instabilità, anche grave, non è mai stata un pilastro di stabilità. Gli Stati Uniti, invece, lo sono stati per decenni. Hanno agito da “capo del mondo”, da garante dell’ordine internazionale, anche a costo di sostenere regimi discutibili o di fare guerre discutibili, ma sempre con l’obiettivo – quantomeno dichiarato – di produrre stabilità. Oggi, però, quel fattore di stabilità è diventato la causa principale di instabilità globale, perché nessuno sa più cosa aspettarsi da Washington. E questo lascia tutti interdetti: su cosa possiamo contare, ora, per avere un minimo di ordine internazionale? Certo, ci sarebbe l’Onu ma sono proprio gli Usa, che l’hanno voluta e sostenuta per primi, a delegittimarla ora. E così siamo in un vuoto. Anche la Cina si trova impreparata: contava su quel fattore di stabilità americano e ora cerca disperatamente di proporre alternative. Ma su cosa fondarle ancora non lo sa nessuno.
Il dito è quindi puntato sulla presidenza Trump. Si tratta di un fatto contingente, legato a questa precisa persona, oppure d’ora in avanti gli Stati Uniti produrranno sempre presidenze di questo tipo?
Non penso che il prossimo presidente Usa debba essere necessariamente altrettanto imprevedibile ma certamente negli Stati Uniti si sta realizzando ciò che Paul Kennedy aveva descritto nel suo libro “L’ascesa e la caduta delle grandi potenze”: il potere, col tempo, corrode la capacità di una nazione di restare al vertice. Gli Usa non rischiano di essere abbattuti da un nemico esterno – le Torri Gemelle furono un trauma, ma non una minaccia esistenziale – si stanno disfacendo dall’interno. Hanno ignorato squilibri strutturali enormi: il deficit della bilancia dei pagamenti, il deficit di bilancio, la disuguaglianza sociale, la perdita di capacità produttiva.
Per trent’anni hanno vissuto sull’idea dell’“eccezionalismo americano”, convinti di poter sostenere squilibri che nessun altro paese avrebbe retto. Ma questa narrazione non regge più. Trump è un sintomo di questa crisi, non la causa. Gli Stati Uniti hanno bisogno di un riequilibrio interno, ma non con gli strumenti usati da Trump. Servirebbero approcci diversi, più cooperativi, più multilaterali. Purtroppo, il presidente precedente, Biden, è stato un disastro: ha spento i toni, ma non ha risolto nessuno dei problemi strutturali. E insistere solo sulle nuove tecnologie, abbandonando il settore manifatturiero, sta rendendo la popolazione incapace di reagire a stimoli diversi da quelli digitali. Ho letto recentemente un articolo scritto da un ragazzo americano delle superiori, che diceva: “L’intelligenza artificiale ci sta rubando la mente”. Perché quando a scuola viene dato un compito gli studenti americani, invece di pensarci, vanno subito a cercare la risposta su una intelligenza artificiale. E così non imparano a usare il cervello.
Cosa dovrebbero fare i potenti del mondo per scongiurare tali rischi? E cosa possiamo fare noi, semplici cittadini?
È più facile rispondere alla seconda parte della domanda che alla prima. Noi cittadini dobbiamo ribellarci all’essere ostaggi delle tendenze dominanti e soprattutto dell’intelligenza artificiale. Usarla per tradurre un testo? Va bene. Chiederle di scrivere al posto nostro? No. Quello significa farsi catturare, rinunciare al pensiero critico, e consegnare il futuro a una macchina. La società civile deve essere resiliente: dal punto di vista cognitivo, comportamentale, politico. Deve negarsi di fronte all’uso acritico della tecnologia e alle posizioni politiche non creative. Quanto ai potenti, quello che dovrebbero fare è ben noto: cooperare, rafforzare il multilateralismo, investire nella diplomazia, ridurre le disuguaglianze. Ma il problema è che non vogliono farlo. Lo sanno, ma preferiscono il potere, il denaro, la convenienza politica. È inutile dirgli “fate questo”, se non hanno intenzione di ascoltare. Certo, come società civile dobbiamo continuare a chiederlo ma non possiamo aspettarci miracoli. Per questo ho più fiducia nei cittadini che nei potenti. La nostra civiltà occidentale si è sempre basata sui cittadini: sono stati loro, nel passato, a spingere i governi verso scelte migliori o, quantomeno, ad impedire le peggiori.
Finirà prima la guerra in Ucraina o il conflitto in Palestina? O finiranno insieme?
Sono più ottimista sulla guerra in Ucraina. Non dico che finirà prima in senso cronologico, ma ci sono forze in campo che possono trovare punti di mediazione. Nessuno dei due – né Russia né Ucraina – pensa che l’altro popolo debba scomparire. Invece, in Palestina, il problema è profondamente ideologico. C’è un odio profondo: ognuna delle due parti vorrebbe che l’altra non esistesse. L’idea dei “due popoli, due Stati” non regge, perché non si sa neanche dove sia lo Stato palestinese. E finché Israele considera la terra come “promessa da Dio” e Hamas considera tutta la Palestina come propria non c’è spazio per un compromesso reale. Certo, arriverà una tregua, questa carneficina non può andare avanti all’infinito. Ma il problema non si risolve con una tregua. Mentre nel caso ucraino, sì, c’è spazio per una soluzione politica duratura.
Qualche mese fa su queste stesse colonne lei diceva che il futuro potrebbe sorprenderci in positivo, chiudendo la sua intervista con parole di speranza. È sempre dello stesso avviso? Cosa ci vorrebbe, proprio oggi, per dare una svolta importante?
La mia unica speranza è nei giovani. Non condivido chi dice che i giovani sono “smidollati”. Io ho quattro nipoti – la più grande ha 26 anni – e sono tutti attivi nella società civile, impegnati in mille iniziative per migliorare il mondo. Certo, abbiamo una responsabilità enorme nei loro confronti: sostenerli, trasmettere valori, essere resilienti anche noi, continuare a parlare, a scrivere, a resistere. In politica, per ora, non vedo vie d’uscita risolutive. Abbiamo provato a lanciare movimenti, ma non siamo andati da nessuna parte. Eppure, se la società civile preme, anche i politici sono costretti a muoversi. Guardiamo la nostra presidente del Consiglio dei ministri, Giorgia Meloni: ha dovuto presentare in Parlamento una mozione per il riconoscimento dello Stato di Palestina, cosa che molto probabilmente non avrebbe fatto senza la pressione della società civile. Quindi, sì: se facciamo qualcosa, alla fine anche i politici devono reagire. Altrimenti sanno che perderanno il consenso e con esso il futuro.
Fabio Poles
Gente Veneta
Foto: Diocesi di Trento



