La profezia inascoltata della “terza guerra mondiale a pezzi” di Papa Francesco

La guerra non è solo fuoco e sangue: è anche silenzio, rimozione, occhi che scelgono di non vedere. La pace non ci chiede il permesso: ci chiede coraggio

“Siamo nella terza guerra mondiale, ma a pezzi”: con questa espressione intensa e profetica pronunciata nel 2014 durante il viaggio di ritorno dalla Corea, Papa Francesco ha descritto negli ultimi anni il nostro tempo, segnato da una moltitudine di conflitti locali, regionali e silenziosi che, pur non essendo formalmente dichiarati come una guerra globale, producono gli stessi effetti devastanti.
La “guerra a pezzi” non è solo una metafora, ma una diagnosi cruda della realtà geopolitica contemporanea: dall’Ucraina alla Palestina, dal Sudan al Myanmar, le tensioni si moltiplicano, i conflitti si incancreniscono e la sicurezza collettiva è messa in discussione. Si giocano partite strategiche sulle spalle dei popoli.
Papa Francesco richiama così la necessità urgente di un risveglio delle coscienze e di una risposta coordinata della comunità globale, capace di superare l’indifferenza e di affrontare con coraggio le cause profonde di queste guerre frammentate: disuguaglianze, avidità economica, crisi ambientali, lotte per il potere e collasso della diplomazia multilaterale.

C’è un filo rosso che lega la diffusione dei conflitti armati al declino della democrazia: è il silenzio. Il silenzio mediatico, il silenzio politico, il silenzio delle coscienze.

Mentre il mondo osserva le guerre più visibili – dall’Ucraina a Gaza – milioni di persone sopravvivono ogni giorno sotto le bombe, tra sfollamenti forzati, carestie, assenza di cure, senza che la loro storia arrivi sui nostri schermi. Proprio su Gaza, Papa Francesco ha levato la sua voce con forza e compassione, ricordando che “Gaza è stremata, nessuno può impedire aiuti umanitari”, un monito che risuona come un dovere morale e politico per la comunità internazionale.
Il Rapporto 2024 “I conflitti dimenticati” della Caritas Italiana squarcia questo velo di oblio, ricordandoci che esiste un mondo ferito che non fa notizia.
Nel 2024 il mondo è attraversato da un paradosso inquietante: da un lato la globalizzazione e l’interconnessione tra popoli; dall’altro, il ritorno prepotente della guerra come strumento ordinario di risoluzione dei conflitti. Lo documenta con lucidità e rigore il nuovo Rapporto Caritas, “Il ritorno delle armi. Guerre del nostro tempo”, presentato a dicembre 2024 a Roma. Numeri, testimonianze e confronti che raccontano un pianeta sempre più diseguale, armato e silenzioso.  Nel 2024, secondo il Sipri (Stockholm International Peace Research Institute), i conflitti armati restano 52, ma cresce l’intensità: quattro guerre oltre i 10.000 morti. Le vittime dirette delle guerre sono state 170.700, il dato più alto dal 2019. Le missioni di pace calano, mentre la spesa militare globale tocca il record di 2.443 miliardi di dollari. Per la prima volta dal 2009, cresce in tutti i continenti: il 2,3% del PIL mondiale, 306 dollari pro capite.
Non stupisce, dunque, l’indignazione di Papa Francesco: “Mi sono vergognato quando ho letto che un gruppo di Stati si sono compromessi a spendere il 2% del Pil per l’acquisto di armi come risposta a questo che sta accadendo, pazzi!”, un grido che richiama all’urgenza di un’etica della spesa pubblica centrata sulla vita, non sulla morte.
Il Democracy Index 2024 evidenzia con chiarezza la stretta relazione tra conflitti armati e degrado democratico. I sei Paesi protagonisti dei conflitti più cruenti – Myanmar, Sudan, Israele, Palestina, Russia e Ucraina – mostrano un livello estremamente basso o compromesso di democrazia, secondo i dati dell’Economist Intelligence Unit.
Questi dati non sono solo una fotografia del presente, ma un allarme strutturale: là dove la guerra si radica, la democrazia si spegne. I conflitti armati si sviluppano spesso in assenza di istituzioni legittime e trasparenti; al contempo, una democrazia debole è più esposta al rischio di conflitto.

La guerra e la democrazia non sono solo in contrapposizione: la prima, nella sua brutalità, è spesso causa e conseguenza dell’erosione della seconda.

Investire nella democrazia – nella partecipazione, nella trasparenza, nella giustizia sociale – significa investire nella pace. E raccontare i conflitti dimenticati significa anche riconoscere che la pace non è mai scontata: va costruita, difesa, rinnovata ogni giorno.
Il rapporto Onu 2024 sui minori nei conflitti armati registra un altro primato tragico: 32.990 gravi violazioni contro i bambini in 25 contesti di guerra. Solo nel 2023, 11.649 bambini sono stati uccisi o mutilati, con un incremento del 35% rispetto al 2022. In Ucraina, oltre 3.000 scuole colpite, 5,3 milioni di bambini privati dell’istruzione.
Secondo la dichiarazione del direttore regionale dell’Unicef per il Medio Oriente e il Nord Africa, solo negli ultimi due mesi, più di 950 bambini sono stati uccisi in attacchi nella Striscia di Gaza.
Un altro volto del conflitto è l’emergenza alimentare. Secondo Unocha, quasi 300 milioni di persone nel mondo dipendono oggi dagli aiuti umanitari. Il Sudan è il caso più drammatico: nel 2024 si stimano 30 milioni di persone in crisi umanitaria, tra cui 3,5 milioni di bambini.
Il Rapporto 2024 lancia un messaggio chiaro e allarmante: la guerra è tornata come strumento ordinario di gestione dei conflitti. Ma ciò che inquieta di più non è solo la sua diffusione, bensì la sua normalizzazione.
Il prezzo più alto lo pagano i più deboli: i bambini, le donne, i poveri, i civili. A fronte di spese militari da record, gli investimenti nella diplomazia, nella prevenzione e nella cooperazione restano marginali. Eppure, un’altra strada è possibile: quella della solidarietà, del dialogo, della pace costruita dal basso. La guerra non è mai lontana: ci riguarda, ci tocca, ci coinvolge. La democrazia non può dirsi compiuta se resta indifferente di fronte alla sofferenza altrui. Occorre un nuovo patto tra pace e democrazia, tra giustizia e verità. Un patto che rifiuti la rassegnazione e scelga l’impegno.
In questo scenario lacerato, risuona con forza la voce di Papa Francesco, che ci ricorda una verità tanto semplice quanto rivoluzionaria: “La guerra porta distruzione e moltiplica le sofferenze delle popolazioni. Speranza e progresso vengono solo da scelte di pace.”
Papa Francesco lo ha detto chiaramente: “Per fare la pace ci vuole coraggio, molto di più che per fare la guerra.” È il coraggio del dialogo, del negoziato, del rispetto dei patti, della sincerità tra popoli e nazioni.

Eppure, il cammino verso un futuro di pace è possibile. “La pace non è soltanto assenza di guerra”, ricorda ancora Papa Francesco, “ma una condizione in cui la persona umana è in armonia con sé stessa, con la natura e con gli altri”.

Per questo, oggi più che mai, non basta essere contro la guerra: bisogna essere per la pace. Una pace fondata sulla democrazia, sull’ascolto, sulla cura degli ultimi. Una pace che si costruisce ogni giorno, nel piccolo e nel grande, nel visibile e nel dimenticato. Perché la pace non si proclama: si pratica.
E se davvero – come ci insegna Papa Francesco – la pace è il nome nuovo della giustizia, allora ogni gesto che riduce la disuguaglianza, ogni parola che rompe il silenzio, ogni scelta che mette la vita al centro, è già un primo passo verso un mondo migliore. Un mondo dove nessuna guerra sia più dimenticata. Un mondo finalmente degno del nome di umano.

Perché la guerra non è solo fuoco e sangue: è anche silenzio, rimozione, occhi che scelgono di non vedere. Ma ogni volta che restiamo indifferenti, ogni volta che voltiamo lo sguardo, diventiamo complici di ciò che distrugge. È tempo di ribellarci, con la voce, con i gesti, con il cuore: a questo scempio non possiamo più rassegnarci. La pace non ci chiede il permesso: ci chiede coraggio. Ora.

Pierpaolo D’Urso

* ordinario di Statistica e preside

della Facoltà di Scienze politiche, Sociologia, Comunicazione all’Università La Sapienza

(SIR)

Foto Vatican Media/SIR

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